LA NOSTRA «VELOCITÀ» E GLI OBBLIGHI DELL’EUROPA
Unione difficile Chiediamoci come ci vedono i partner e quali vantaggi o svantaggi avrebbero a condividere con noi i gradi più elevati dell’integrazione del domani
In Europa, negli ultimi 15/20 anni, la situazione è molto cambiata e gli assetti dell’Unione Europea appaiono inadeguati. Davanti a eventi drammatici (crisi economica, migrazioni, terrorismo, conflitti in terre vicine), l’Unione è stata, al tempo stesso, onnipresente e incapace di risolvere i problemi con la rapidità auspicata dai cittadini. Nessuno ha più dubbi sulla necessità di cambiare passo; semmai, si pongono i classici quesiti: quando, come e con quali protagonisti. Al primo, oramai, tutti rispondono: dopo le tornate elettorali del 2017 (Paesi Bassi, Francia, Germania). Rispetto agli altri due, varie prese di posizione, dal vertice di Malta a questi giorni, aiutano a comprendere meglio la possibile prospettiva.
Un documento dei governi del Benelux (Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi) afferma la validità degli attuali trattati europei, perché sono basati su principi essenziali (libertà, uguaglianza, democrazia, Stato di diritto) e consentono di affrontare le sfide che ci preoccupano. Al riguardo, si chiede che l’Unione operi con maggiore trasparenza e si concentri sulle iniziative in cui sia chiaro il suo valore aggiunto, rispetto a ciò che va fatto a livello nazionale. Per esempio, deve assicurare la libertà di circolazione a persone, merci, servizi e capitali; curare la dimensione sociale del mercato Ue; garantire la moneta unica. Le idee non sono nuove, ma colpisce che si escluda l’utilità di un nuovo trattato e che si perimetri la sfera d’azione dell’Unione, rispetto agli Stati. Impostazione cauta, in un certo contrasto con due ulteriori punti. Uno è il sostegno al libero movimento delle persone, oggi in bilico, come si è visto nel referendum Brexit e come dimostrano i «muri» psicologici e reali che tendono a chiudere, di nuovo, le frontiere statali. L’altro è il richiamo all’osservanza degli impegni assunti dai Paesi che adottano l’euro, aspetto sensibile, contestato dai governi più in ambasce con i loro bilanci.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha parlato di «Europa a varie velocità», in sintonia con il documento Benelux, aperto ai differenti gradi d’integrazione fra i Paesi Ue. Opzione ben nota, consentita dai trattati europei e già parte della realtà dell’Unione, dove non tutti gli Stati aderiscono al «sistema Schengen» per la circolazione delle persone o adottano l’euro. L’esplicita dichiarazione ha fatto scalpore; poi, è stato precisato che non si alludeva all’eurozona, da mantenere integra e unita. Restano, però, le domande su cosa pensi davvero la Germania. Una risposta va cercata nella campagna elettorale: schierarsi per forme variabili di cooperazione, dà più margini per conquistare suffragi, evitando di appiattirsi su un solo modello d’Europa, sovente impopolare. Ma non è tutto.
Dire, oggi, che l’eurozona non si tocca è ovvio, per scongiurare turbolenze monetarie. Tuttavia, da tempo, Berlino riflette sugli scenari futuri, con esperti non solo tedeschi: sostiene le idee Benelux; con la Francia ne elabora per la sicurezza e la difesa; con gli Stati favorevoli alla sua visione di rigore, lavora sulle politiche macroeconomiche. Il concetto di «varie velocità» è utile, perché fluido. Sottende le «due velocità», ma non implica una netta divisione fra «serie A» e «serie B», le categorie possono essere di più. Non richiede neppure velocità «concentriche», differenziate da un’integrazione, via via crescente, lungo il medesimo asse.
È evidente come, per l’Italia e per il suo avvenire, questi temi siano prioritari. Dovremmo confrontarci con i partner, approfondire un dibattito che, da noi, è sovente episodico, farcito di convinzioni stereotipate e di contraddizioni. Gli esempi sono numerosi. Fra chi, a parole, è favorevole a formule d’integrazione europea avanzata, troviamo tenaci critici degli obblighi che quelle a cui già aderiamo impongono al nostro Paese: come i severi vincoli collegati all’euro o gli adempimenti richiesti dal «sistema Schengen»; critiche legittime, se non fosse per la frequente incapacità di trovare, nelle sedi decisionali Ue, gli alleati per cambiare le regole. Sul fronte opposto, si è abili nell’eccepire tutto ciò che non va nell’Unione, ma ben più sfumati nell’illustrare compiutamente le alternative.
L’Italia viola spesso le norme europee e ne approva di nuove che, poi, attua tardi o male: ne conseguono mortificanti infrazioni Ue, specie nel vitale settore della tutela dell’ambiente. L’ingente investimento dei «fondi strutturali» europei (circa 9 miliardi l’anno, per 7 anni, incluso il cofinanziamento dello Stato) non solleva l’esigua crescita della nostra economia: Ciò nonostante, nei più recenti esercizi di bilancio, abbiamo chiesto di poter spendere altre risorse pubbliche, facendo ulteriori debiti e malgrado tardino i risultati dei quasi 19 miliardi già ammessi dall’Unione, nello scorso biennio, in deroga alle sue regole. Riflettiamo e chiediamoci a quale «velocità» procediamo realmente nell’Ue. Soprattutto, domandiamoci come ci vedono i partner e quali vantaggi o svantaggi avrebbero a condividere con noi i gradi più elevati dell’integrazione europea del domani.