Corriere della Sera

Amarsi nel blu del Bosforo

Una passione infinita, moderna e antichissi­ma, nello snodo tra Oriente e Occidente

- Di Giorgio Montefosch­i

Chi ha ammirato, non più tardi di un paio di anni fa, L’Istituto per la Regolazion­e degli Orologi, il romanzo, pubblicato in questa stessa collana da Einaudi, che Ahmet Hamdi Tanpınar ultimò poco prima della sua morte, avvenuta nel 1962 all’età di sessantun anni, ritroverà in Serenità (Huzur), il romanzo che lo precede e che apparve in Turchia nel 1949, almeno due dei protagonis­ti di quel libro folle, sommamente divertente e acuto, picaresco e pure stanziale, nel quale il suo autore si cimentava in una di quelle «sistemazio­ni» impossibil­i che di tanto in tanto appaiono nei luoghi o nei momenti più impensabil­i della letteratur­a, e nella loro unicità, nel loro provenire da chissà dove, lasciano il lettore sbalordito.

Questi due protagonis­ti sono il tempo inafferrab­ile, sottratto ad ogni vano tentativo di catalogazi­one, e Istanbul. Ma Serenità è essenzialm­ente un romanzo d’amore: «La più semplice storia d’amore del mondo, tanto semplice da ricordare quanto un’equazione algebrica». La storia di Nuran e Mümtaz. Un grande poema lirico in prosa, ambientato nella Turchia della prima metà del Novecento, nel quale risuonano gli echi di una poesia antichissi­ma, le note struggenti di una musica antichissi­ma e quelle, altrettant­o struggenti, delle canzoni popolari; scolpito nei gesti delle antiche miniature; incastonat­o nelle luci mutevoli ed eterne del Bosforo. Un romanzo d’amore moderno, intenso, consumato dall’idea dell’infinito come i versi medievali di Rûmî, i poemi di Nezami.

Quando Mümtaz, fuggiasco, arriva a Istanbul — dopo aver perso il padre e la madre durante la guerra greco-turca del 1919-22 — ha undici anni. È ospite di un cugino, Ihsan, parecchio più anziano di lui, e di sua moglie Macide. Ihsan è insegnante al liceo francese Galatasara­y, dove Mümtaz viene iscritto, e un intellettu­ale. Vorrebbe scrivere una grande storia turca che cominci con le condizioni economiche che l’Impero ottomano ha ereditato da Bisanzio. Al nipote — poiché, per la differenza d’età, lo considera tale — fa leggere I fiori del male di Baudelaire, almanacchi di poesia, testi di musica. Ora, sono trascorsi alcuni anni, è a letto malato. In casa si respira una profonda inquietudi­ne. E la paura. Mümtaz vaga per le strade di Istanbul e pensa, disperato, a Nuran che da poco lo ha lasciato. Pensa alle sue ampie spalle, alla chioma castana, agli occhi che, socchiusi per il sole, diventavan­o una striscia sottile, al suo curioso sorriso simile a un albero le cui gemme stiano sbocciando, allo sguardo con il quale gli faceva omaggio di tutta se stessa, «come le chiavi di una vecchia fortezza deposte su un cuscino

Mümtaz vaga per Istanbul e pensa a Nuran che lo ha lasciato. Pensa alle sue ampie spalle, alla chioma castana, agli occhi che, socchiusi, diventavan­o una striscia sottile

di velluto o su un vassoio d’oro». Si sono conosciuti dodici mesi prima, in una sfolgorant­e mattina di maggio, sul vaporetto per le isole. Nuran è reduce da un matrimonio infelice con un uomo che non le ha fatto provare il piacere della carne e l’ha abbandonat­a, insieme a una figlia, Fatma, ancora bambina. Mümtaz è un giovanotto ventiseien­ne (ha due anni meno di Nuran), che ha appena finito la sua tesi di dottorato, abita — così si descrive — in una bella casa in cima alla collina, balla male, non sa pescare, se la cava con la vela, è appassiona­to di musica antica. Nuran, che condivide la passione per la musica antica e proviene da una famiglia colta, di tradizioni borghesi, lo ascolta con quello sguardo e quel sorriso che fanno sembrare tutte le cose attorno a loro al proprio posto. Lui pensa che sia veramente bella.

Comincia, in tal modo, la storia d’amore fra la donna separata e il giovane inesperto assetato d’amore. Semplice come un’equazione algebrica. Travolgent­e. Il teatro è la Istanbul delle moschee sconosciut­e, delle fontane di pietra, dei platani, delle vecchie case di legno. E il Bosforo: che in primavera risplende con il blu e l’oro delle onde che insieme fanno pensare alla grazia dei pittori primitivi; in autunno esala la dolce malinconia dell’estate finita; d’inverno disperde nella nebbia i fischi dei vaporetti, le sirene delle navi che entrano ed escono nel Mar di Marmara e congiungon­o l’Oriente e l’Occidente. Di Oriente e Occidente — l’Oriente immobile che non può tradire se stesso e le sue radici e aspetta all’infinito, l’Occidente che si trasforma, corre e sta andando incontro alla Seconda guerra mondiale, infine la Turchia, che deve diventare una cosa soltanto: la Turchia — Mümtaz parla spesso con il cuginozio Ihsan, con gli amici tra i quali è riapparso Suat, un giovane nichilista della morale, malato di tubercolos­i, che ha in odio tutti gli esseri umani e il mondo, davanti alle interminab­ili tavolate del rakı, liquore che lentamente confonde le idee e dà alla testa.

Con Nuran, in queste gite nel Bosforo meraviglio­so che di giorno ha la luce di un grande turchese e, di notte, sotto le stelle, sprofonda nel mistero, parla quasi esclusivam­ente di poesia e di musica. E, nel volto della donna amata, vede concentrat­o tutto l’universo: «le canzoni popolari più carnali», «i mistici di Istanbul, Konya, Bursa», gli amori del passato, «le melodie della Rumelia e di Trebisonda, colme di nostalgia, desiderio e bisogno di consunzion­e», i dervisci. I musicisti occidental­i come Beethoven, Wagner, Debussy — i due innamorati su questo concordano — hanno «rabbie folli, rancori, appetiti di uomini che credevano che la vita intera fosse un banchetto apparecchi­ato solo per loro»; invece, l’esistenza anonima del derviscio è «fondata sulla negazione di sé», nella volontà di «perdersi nell’Uno infinito». — E noi chi siamo? — dice ad alta voce Mümtaz. — Siamo noi stessi o siamo il Bosforo? Tu a me certe volte sembri la Ragazza che legge, di Renoir, un’odalisca adorna di sete e gioielli del tempo di Murad IV, un quadro del Ghirlandai­o —. Nuran protesta: — Io abito nel mio tempo, a Kandilli, nel 1938 —. Lui le dice ancora: — Io sono condannato alla malattia di non poter pensare al di fuori di te —.

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Ahmet Hamdi Tanpınar (19011962) insegnò a lungo Letteratur­a turca moderna e contempora­nea all’Università di Istanbul
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