MA NON È UNA FESTA IPOCRITA
Sorridevano tutti, ieri, alla grande festa romana del Sessantesimo. Nella sala diventata piccola degli Orazi e dei Curiazi tutti esaltavano propositi unitari. Tutti promettevano una riscossa comune. Tutti escludevano che le Nazioni della Ue potessero, domani, non avanzare più «nella stessa direzione». Nei discorsi come nel testo della dichiarazione sottoscritta dai Ventisette (assente concordata la britannica May) la langue de bois diplomatica ha fatto miracoli, smussando, dissimulando, centellinando i dissensi e ingigantendo gli impegni futuri. Si voleva, con un compromesso formale che tutti potevano condividere, garantire un meritato successo ai padroni di casa italiani, al loro capo di governo Gentiloni e al loro presidente Mattarella. Ma ancor più si voleva non perdere d’occhio il calendario, evitare che una palese spaccatura tra europei a Roma facesse tra meno di un mese il gioco di Marine Le Pen in quelle elezioni francesi che decideranno, più di ogni altra, della vita e della morte dell’Europa.
È accaduto così che ieri qualche testa venisse infilata nella sabbia unitaria, che dissensi assai vivi e assai noti venissero taciuti, che fosse preservata la tradizionale usanza celebrativa di dar fiato alle trombe. Ma sbaglierebbe di grosso chi giungesse alla conclusione che il vertice di Roma è stato soltanto una festa ipocrita. Perché in realtà, esplorate tutte le possibili moderazioni di linguaggio, il testo sottoscritto afferma che gli Stati europei agiranno sì insieme, ma con ritmi e intensità diversi quando necessario.
La posta in gioco era tutta qui, e resta ben chiaro il concetto che chi vuole avanzare nell’integrazione potrà farlo senza blocchi altrui e senza attendere chi non vuole o non può partecipare.
L’Europa era già a diverse velocità, lo sappiamo. Ma il ritornello dei minimalisti trascura l’importanza della nuova volontà politica che in questa fase Germania, Francia, Italia e Spagna hanno espresso con chiarezza. Non si tratterà più di un ricorso episodico e burocratico a quelle cooperazioni rafforzate che sono già previste nei Trattati vigenti. Si tratterà, piuttosto, di una Europa progressivamente diversa e con un nocciolo più ristretto, di una Europa meno rigida e meglio in grado di far fronte alle sfide che oggi la assediano: la propaganda assai male contrastata dei movimenti «populisti» o antisistema, la Brexit che non è «una tragedia» come ha detto ieri Juncker ma che può contagiare altri soci, il potenziale destabilizzante dei flussi migratori, una ripresa economica ancora debole, il complicato rapporto con l’America di Trump e l’invadenza della Russia, l’esigenza di dare un futuro ai giovani e quella, esaltata dal terribile messaggio simbolico dell’attentato di Westminster, di collaborare più strettamente nella difesa dal terrorismo.
Il cantiere che quasi di nascosto si è aperto ieri a Roma disporrà di un decennio per cambiare la deludente Europa di oggi, ma è chiaro che l’Europa non dispone di un decennio perché i suoi popoli-elettori non pazienteranno tanto. La scelta delle politiche sulle quali avviare un gruppo più integrato deve avvenire nei prossimi sei mesi, e il 2018, se le elezioni in Francia e in Germania avranno sancito la sconfitta degli antieuropeisti, dovrà segnare il varo concreto della Ue a diverse velocità.
Pur mantenendo una cornice comune europea la nascita di una avanguardia (la serie A) formalmente aperta ai ritardatari (la serie B) diventerà inevitabile. Altre proteste oltre a quella della Polonia emergeranno. Si porrà il problema di conciliare gli interessi nazionali anche all’interno del gruppo di
testa. Andranno riviste, per evitare una paralisi istituzionale o accuse di illegittimità, le competenze della Commissione, del Consiglio e del Parlamento. La nascita di una avanguardia favorirà il peso del Paese più forte, ovviamente la Germania, e in tal modo gli interessi altrui potrebbero non essere rispettati mentre le tentazioni separatiste, comprese quelle degli stessi tedeschi, rischierebbero di prendere quota.
Incognite pesanti, senza dubbio. Ma l’Europa, come diceva Gorbaciov ancora capo dell’Urss, «non ha più dove arretrare». Il sogno dei fondatori si è dissolto, malgrado una esperienza esaltante e troppo poco ricordata che ha garantito sessant’anni di pace, democrazia e welfare. Oggi l’imperativo è sopravvivere alle urne e poi rilanciare in forma nuova, ricrea- re il consenso dei popoli senza dimenticare le istanze dei «populisti» e prevenendo la loro strumentalizzazione elettorale. L’unica alternativa alla integrazione differenziata, per quanto difficile essa possa risultare, è la morte dell’Europa.
La sfida è lanciata. E l’Italia deve capire che nella nuova Europa che verrà, Francia permettendo, non sarà facile sedere in prima fila. Perché le nostre future elezioni, diversamente dalle altre, rischiano fortemente di portare all’ingovernabilità oppure a mal concepite esercitazioni referendarie. Perché la nostra economia cresce poco, e il debito non cala. Gli esami non finiranno. E dovremmo temere noi stessi, più della potente Germania che spaventa i sovranisti.