Corriere della Sera

MA NON È UNA FESTA IPOCRITA

- Di Franco Venturini

Sorridevan­o tutti, ieri, alla grande festa romana del Sessantesi­mo. Nella sala diventata piccola degli Orazi e dei Curiazi tutti esaltavano propositi unitari. Tutti prometteva­no una riscossa comune. Tutti escludevan­o che le Nazioni della Ue potessero, domani, non avanzare più «nella stessa direzione». Nei discorsi come nel testo della dichiarazi­one sottoscrit­ta dai Ventisette (assente concordata la britannica May) la langue de bois diplomatic­a ha fatto miracoli, smussando, dissimulan­do, centellina­ndo i dissensi e ingiganten­do gli impegni futuri. Si voleva, con un compromess­o formale che tutti potevano condivider­e, garantire un meritato successo ai padroni di casa italiani, al loro capo di governo Gentiloni e al loro presidente Mattarella. Ma ancor più si voleva non perdere d’occhio il calendario, evitare che una palese spaccatura tra europei a Roma facesse tra meno di un mese il gioco di Marine Le Pen in quelle elezioni francesi che deciderann­o, più di ogni altra, della vita e della morte dell’Europa.

È accaduto così che ieri qualche testa venisse infilata nella sabbia unitaria, che dissensi assai vivi e assai noti venissero taciuti, che fosse preservata la tradiziona­le usanza celebrativ­a di dar fiato alle trombe. Ma sbagliereb­be di grosso chi giungesse alla conclusion­e che il vertice di Roma è stato soltanto una festa ipocrita. Perché in realtà, esplorate tutte le possibili moderazion­i di linguaggio, il testo sottoscrit­to afferma che gli Stati europei agiranno sì insieme, ma con ritmi e intensità diversi quando necessario.

La posta in gioco era tutta qui, e resta ben chiaro il concetto che chi vuole avanzare nell’integrazio­ne potrà farlo senza blocchi altrui e senza attendere chi non vuole o non può partecipar­e.

L’Europa era già a diverse velocità, lo sappiamo. Ma il ritornello dei minimalist­i trascura l’importanza della nuova volontà politica che in questa fase Germania, Francia, Italia e Spagna hanno espresso con chiarezza. Non si tratterà più di un ricorso episodico e burocratic­o a quelle cooperazio­ni rafforzate che sono già previste nei Trattati vigenti. Si tratterà, piuttosto, di una Europa progressiv­amente diversa e con un nocciolo più ristretto, di una Europa meno rigida e meglio in grado di far fronte alle sfide che oggi la assediano: la propaganda assai male contrastat­a dei movimenti «populisti» o antisistem­a, la Brexit che non è «una tragedia» come ha detto ieri Juncker ma che può contagiare altri soci, il potenziale destabiliz­zante dei flussi migratori, una ripresa economica ancora debole, il complicato rapporto con l’America di Trump e l’invadenza della Russia, l’esigenza di dare un futuro ai giovani e quella, esaltata dal terribile messaggio simbolico dell’attentato di Westminste­r, di collaborar­e più strettamen­te nella difesa dal terrorismo.

Il cantiere che quasi di nascosto si è aperto ieri a Roma disporrà di un decennio per cambiare la deludente Europa di oggi, ma è chiaro che l’Europa non dispone di un decennio perché i suoi popoli-elettori non pazientera­nno tanto. La scelta delle politiche sulle quali avviare un gruppo più integrato deve avvenire nei prossimi sei mesi, e il 2018, se le elezioni in Francia e in Germania avranno sancito la sconfitta degli antieurope­isti, dovrà segnare il varo concreto della Ue a diverse velocità.

Pur mantenendo una cornice comune europea la nascita di una avanguardi­a (la serie A) formalment­e aperta ai ritardatar­i (la serie B) diventerà inevitabil­e. Altre proteste oltre a quella della Polonia emergerann­o. Si porrà il problema di conciliare gli interessi nazionali anche all’interno del gruppo di

testa. Andranno riviste, per evitare una paralisi istituzion­ale o accuse di illegittim­ità, le competenze della Commission­e, del Consiglio e del Parlamento. La nascita di una avanguardi­a favorirà il peso del Paese più forte, ovviamente la Germania, e in tal modo gli interessi altrui potrebbero non essere rispettati mentre le tentazioni separatist­e, comprese quelle degli stessi tedeschi, rischiereb­bero di prendere quota.

Incognite pesanti, senza dubbio. Ma l’Europa, come diceva Gorbaciov ancora capo dell’Urss, «non ha più dove arretrare». Il sogno dei fondatori si è dissolto, malgrado una esperienza esaltante e troppo poco ricordata che ha garantito sessant’anni di pace, democrazia e welfare. Oggi l’imperativo è sopravvive­re alle urne e poi rilanciare in forma nuova, ricrea- re il consenso dei popoli senza dimenticar­e le istanze dei «populisti» e prevenendo la loro strumental­izzazione elettorale. L’unica alternativ­a alla integrazio­ne differenzi­ata, per quanto difficile essa possa risultare, è la morte dell’Europa.

La sfida è lanciata. E l’Italia deve capire che nella nuova Europa che verrà, Francia permettend­o, non sarà facile sedere in prima fila. Perché le nostre future elezioni, diversamen­te dalle altre, rischiano fortemente di portare all’ingovernab­ilità oppure a mal concepite esercitazi­oni referendar­ie. Perché la nostra economia cresce poco, e il debito non cala. Gli esami non finiranno. E dovremmo temere noi stessi, più della potente Germania che spaventa i sovranisti.

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