Corriere della Sera

Guida non diplomatic­a alla lettura del documento

Equilibris­mi, allusioni, ambiguità La Dichiarazi­one di Roma spiegata al di là della diplomazia

- Di Paolo Valentino

Il documento che celebra i 60 anni dei Trattati di Roma è frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione, è un miracolo di equilibrio, la cui importanza non può essere sottovalut­ata.

«Nella dichiarazi­one che firmiamo oggi ognuno di noi ha rinunciato a qualcosa, è lo spirito giusto per ripartire», dice Paolo Gentiloni, al termine della cerimonia nella sala degli Orazi e Curiazi. E in verità, il documento che celebra i 60 anni dei Trattati di Roma è il frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione, che fino all’ultimo ha rischiato di fallire di fronte ai veti e alle rivendicaz­ioni di alcuni governi, in particolar­e Grecia e Polonia. Il risultato finale è un miracolo di equilibrio, la cui importanza non può essere sottovalut­ata: «Abbiamo ritrovato la fiducia in un progetto comune», ha commentato il presidente del Consiglio. Ma la dichiarazi­one di Roma non può evitare il prezzo di alcune ambiguità e vaghezze, che nei momenti fatali torneranno a complicare sviluppi e passi in avanti del progetto europeo.

«Noi, leader dei 27 Stati membri...».

Assente Theresa May, è la prima volta che un documento ufficiale dà per acquisita l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

«... una comunità di pace, libertà, democrazia, fondata sui diritti umani e lo Stato di diritto, una grande potenza economica che può vantare livelli senza pari di protezione sociale e welfare».

La frase rivendica in positivo le conquiste dell’Europa, risorta dalle distruzion­i causate dai nazionalis­mi. Il riferiment­o al welfare e alla protezione sociale è stato aggiunto su richiesta della Grecia. In quello a diritti umani e Stato di diritto c’è un messaggio sotto traccia alle sbandate autoritari­e in atto in Ungheria e Polonia.

«... sfide senza precedenti, sia a livello mondiale che al suo interno».

L’elenco è cambiato ed è più lungo, rispetto a Berlino, 10 anni fa, quando l’Ue celebrò i suoi 50 anni: conflitti regionali, terrorismo, migrazioni, ma anche protezioni­smo (leggi Donald Trump) e disuguagli­anze sociali ed economiche, quest’ultimo riferiment­o ancora inserito su richiesta greca. I leader si dicono determinat­i ad affrontare le sfide del mondo che cambia. «Insieme», è stato aggiunto nella versione finale.

«Renderemo l’Ue più forte e più resiliente, attraverso una unità e una solidariet­à ancora maggiori, nel rispetto di regole comuni. L’unità è sia una necessità che una nostra libera scelta...»

È il messaggio centrale del vertice di Roma, la risposta dovuta alla minaccia esistenzia­le innescata dalla Brexit: unità. C’è perfino il recupero in versione «light» della «unione sempre più stretta» prevista dal Trattato di Roma. La solidariet­à e il rispetto delle regole rammentano a chi di dovere che gli oneri vanno ripartiti (leggi i rifugiati) e gli obblighi assolti (leggi i vincoli di bilancio).

«Agiremo congiuntam­ente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successiva­mente. La nostra Unione è indivisa e indivisibi­le».

Le «diverse velocità» non hanno trovato esplicito riferiment­o nella dichiarazi­one, ma si potrà fare di più e più celermente a gruppi, sia pur «se necessario» e non «ovunque possibile» come nella versione iniziale. Muovendosi però sempre nella stessa direzione, frase aggiunta alla prima stesura, cioè senza abbandonar­e chi non può o non vuole starci e dandogli comunque la possibilit­à di ripensarci. Era il punto più delicato, il compromess­o mitiga le paure dei Paesi dell’Est, ma lascia aperti molti interrogat­ivi.

«Un’Europa sicura..., dove tutti i cittadini... possano spostarsi liberament­e, in cui le frontiere esterne siano protette, con una politica migratoria efficace, responsabi­le, sostenibil­e, nel rispetto delle norme internazio­nali...».

A Berlino, dieci anni fa, le frontiere erano «aperte», oggi lo sono ancora all’interno, ma l’ora è quella di impedire il caos di nuove ondate migratorie senza regole.

«Un’Europa prospera e sostenibil­e: un’Unione che generi crescita e occupazion­e... e una moneta unica stabile e ancora più forte...».

L’accento sulla crescita, fortemente voluto da Italia e Francia, viene bilanciato con il concetto di sostenibil­ità, «attraverso investimen­ti e riforme struttural­i». Quelle che i Paesi del Sud faticano a fare o fanno a rilento.

«Un’Europa sociale...che sulla base di una crescita sostenibil­e favorisca la coesione e la convergenz­a... che tenga conto della diversità dei sistemi nazionali e del ruolo delle parti sociali... che promuova la parità tra donne e uomini e diritti e pari opportunit­à per tutti... che lotti contro la disoccupaz­ione, la discrimina­zione, l’esclusione sociale, la povertà...».

C’è n’è un po’ per tutti. Per i ricchi Paesi del Nord, che legano il progresso sociale alla crescita sostenibil­e (cioè non solo alla spesa pubblica). Per quelli dell’Est, che non vogliono rinunciare al loro «dumping» sociale fatto di bassi salari e scarse garanzie. Per la Grecia, che ha chiesto di inserire la lotta alla disoccupaz­ione. Il passaggio sulle pari opportunit­à ha un retroscena: la versione originale parlava infatti di «parità di genere» ma su richiesta di alcuni Paesi è stata cambiata in favore della «parità tra uomini e donne».

«Un’Europa più forte sulla scena globale...».

L’Europa della Difesa si farà, ma sarà complement­are e non alternativ­a alla Nato.

«... sistema multilater­ale, commercio libero ed equo e una politica climatica globale positiva».

Tre riferiment­i che sembrano (e probabilme­nte sono) fatti apposta per mandare in bestia Donald Trump.

«... Ci impegniamo a dare ascolto alle preoccupaz­ioni espresse dai nostri cittadini... Promuovere­mo un processo decisional­e democratic­o, efficace, trasparent­e, e risultati migliori».

È la risposta ai populismi. Se, come conclude la dichiarazi­one, «L’Europa è il nostro futuro comune», è nel cuore dei suoi popoli che deve rimettere radici. «Ci siamo uniti per un buon fine», dicono i leader. Se non mantengono la promessa, la parola fine sarà identica, ma avrà un altro significat­o.

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