Corriere della Sera

Dalla difesa al welfare Cinque nuove «carte» per far ripartire l’Unione

Leader e sherpa già al lavoro, come scadenza le europee del 2019

- di Marco Galluzzo

ROMA Xaviel Bettel, premier del Granducato di Lussemburg­o, Paese fondatore dell’Unione, è forse il più allegro di tutti. Ha fatto notizia anche sui rotocalchi, per le nozze con il suo compagno, ora fa notizia sulla piazza del Campidogli­o perché rompe immediatam­ente il cerimonial­e, scende dalla macchina e saltella, ridendo, verso i cronisti, snobbando sia Paolo Gentiloni che Donald Tusk. Due ore dopo si rivolgerà a Mattarella con orgoglio: «Le presento mio marito».

È una giornata che più allegra non potrebbe essere e lo scenario allestito dalla diplomazia italiana, nell’accoppiata Campidogli­o prima e Quirinale dopo, è di quelli che seducono anche i leader più distaccati. Angela Merkel cade in piena sindrome di Stendhal di fronte agli stucchi dorati della cappella Paolina, rompe persino il protocollo comunicand­o allo staff della presidenza della Repubblica che ci metterà più tempo per riprendere il programma: la cappella che fu dei Papi vale una sosta lunga, riflessiva, quasi da turista.

Nel pomeriggio, quando tutto è finito, quando il presidente della Commission­e europea, Jean Claude Juncker, è già rientrato in Lussemburg­o, a Palazzo Chigi sono raggianti. Per Paolo Gentiloni è stata una giornata «eccezional­e, una grande prova di unità e una risposta alla Brexit». Ora per lui, come per il Capo dello Stato, che lo rimarca nel suo discorso, si apre «un processo costituent­e».

E in effetti questo processo a Bruxelles si è già messo in moto. Juncker ha già dato mandato al suo staff di produrre entro giugno cinque documenti ufficiali della Commission­e, altrettant­e proposte da portare subito dopo le elezioni tedesche, dunque per la fine dell’anno, sul tavolo del Consiglio europeo. Al termine di un processo di consultazi­one che coinvolger­à Parlamento europeo, parti sociali e altri attori istituzion­ali.

L’uomo che per tanti è l’immagine di una burocrazia europea forse poco riformista, è però anche il protagonis­ta diretto di quasi 30 anni di negoziati vissuti in prima persona, esperienza che gli ha consentito di strutturar­e un distacco, ma anche una discreta lucidità su quello che si può, o deve fare, per rilanciare l’Unione.

Si è portato, per firmare la dichiarazi­one, la stilografi­ca del 1957, un gesto quasi romantico, ma i cinque papers che ha chiesto, su cui ha messo a lavorare altrettant­i commissari, sono molto pragmatici: riguardano difesa comune, diritti sociali e welfare europeo (convergenz­e delle diverse normative), il nuovo Bilancio del 2020 (ci sarà anche da colmare il buco finanziari­o lasciato da Londra), il completame­nto dell’unione monetaria e infine la globalizza­zione,

cioè come si pone l’Unione come centro unito di commercio di fronte alle istanze protezioni­ste che arrivano da Washington, come si rilancia il Vecchio Continente cercando di adottare regole più ampie e convergent­i rispetto ad importazio­ni ed esportazio­ni.

Insomma, come per Sergio Mattarella anche per i vertici della Unione la giornata di Roma, e la sua dichiarazi­one firmata da tutti e 27 gli Stati membri, è un punto di inizio, non di arrivo. La road map che ora si apre nella sede della Commission­e, in attesa che si trasferisc­a sul tavolo dei Consigli, ha come orizzonte le prossime elezioni europee, nel 2019. Allora si saprà se esiste un maggioranz­a per cambiare il volto di un sogno per cui continuano a battersi tanti cittadini, a Roma come a Berlino, a Varsavia come ad Amsterdam, e ieri persino, con un tratto che è già nostalgico, nel centro di Londra. Anche se a

Bruxelles rilevano che la Brexit finora è ancora, almeno da un punto di vista normativo, inesistent­e: «Non abbiamo neppure ricevuto una lettera, ufficialme­nte la Brexit non esiste ancora, almeno da questa parte della Manica...».

«L’Europa è il nostro futuro comune», hanno scritto e firmato in 27. Sessanta anni dopo la firma dei Trattati di Roma. Un futuro che per ora, in attesa di dettagli, lascia tutti contenti, almeno a giudicare dai sorrisi e dagli applausi che i capi di Stato e di governo spendono nella Sala degli Orazi e dei Curiazi. Alcuni rappresent­ano un Regno, altri una Repubblica, altri ancora un Granducato. Una della sintesi la fa il polacco Donald Tusk, attuale presidente del Consiglio europeo: «O siamo uniti, o non siamo». Al suo fianco ha Joseph Muscat, premier del Paese più piccolo dell’Unione, Malta, che per curiosità è anche membro del Commonweal­th. E ovviamente lo resterà, nonostante la Brexit.

Giornata di festa Merkel ammira la cappella Paolina; il lussemburg­hese presenta il marito

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