Dalla difesa al welfare Cinque nuove «carte» per far ripartire l’Unione
Leader e sherpa già al lavoro, come scadenza le europee del 2019
ROMA Xaviel Bettel, premier del Granducato di Lussemburgo, Paese fondatore dell’Unione, è forse il più allegro di tutti. Ha fatto notizia anche sui rotocalchi, per le nozze con il suo compagno, ora fa notizia sulla piazza del Campidoglio perché rompe immediatamente il cerimoniale, scende dalla macchina e saltella, ridendo, verso i cronisti, snobbando sia Paolo Gentiloni che Donald Tusk. Due ore dopo si rivolgerà a Mattarella con orgoglio: «Le presento mio marito».
È una giornata che più allegra non potrebbe essere e lo scenario allestito dalla diplomazia italiana, nell’accoppiata Campidoglio prima e Quirinale dopo, è di quelli che seducono anche i leader più distaccati. Angela Merkel cade in piena sindrome di Stendhal di fronte agli stucchi dorati della cappella Paolina, rompe persino il protocollo comunicando allo staff della presidenza della Repubblica che ci metterà più tempo per riprendere il programma: la cappella che fu dei Papi vale una sosta lunga, riflessiva, quasi da turista.
Nel pomeriggio, quando tutto è finito, quando il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, è già rientrato in Lussemburgo, a Palazzo Chigi sono raggianti. Per Paolo Gentiloni è stata una giornata «eccezionale, una grande prova di unità e una risposta alla Brexit». Ora per lui, come per il Capo dello Stato, che lo rimarca nel suo discorso, si apre «un processo costituente».
E in effetti questo processo a Bruxelles si è già messo in moto. Juncker ha già dato mandato al suo staff di produrre entro giugno cinque documenti ufficiali della Commissione, altrettante proposte da portare subito dopo le elezioni tedesche, dunque per la fine dell’anno, sul tavolo del Consiglio europeo. Al termine di un processo di consultazione che coinvolgerà Parlamento europeo, parti sociali e altri attori istituzionali.
L’uomo che per tanti è l’immagine di una burocrazia europea forse poco riformista, è però anche il protagonista diretto di quasi 30 anni di negoziati vissuti in prima persona, esperienza che gli ha consentito di strutturare un distacco, ma anche una discreta lucidità su quello che si può, o deve fare, per rilanciare l’Unione.
Si è portato, per firmare la dichiarazione, la stilografica del 1957, un gesto quasi romantico, ma i cinque papers che ha chiesto, su cui ha messo a lavorare altrettanti commissari, sono molto pragmatici: riguardano difesa comune, diritti sociali e welfare europeo (convergenze delle diverse normative), il nuovo Bilancio del 2020 (ci sarà anche da colmare il buco finanziario lasciato da Londra), il completamento dell’unione monetaria e infine la globalizzazione,
cioè come si pone l’Unione come centro unito di commercio di fronte alle istanze protezioniste che arrivano da Washington, come si rilancia il Vecchio Continente cercando di adottare regole più ampie e convergenti rispetto ad importazioni ed esportazioni.
Insomma, come per Sergio Mattarella anche per i vertici della Unione la giornata di Roma, e la sua dichiarazione firmata da tutti e 27 gli Stati membri, è un punto di inizio, non di arrivo. La road map che ora si apre nella sede della Commissione, in attesa che si trasferisca sul tavolo dei Consigli, ha come orizzonte le prossime elezioni europee, nel 2019. Allora si saprà se esiste un maggioranza per cambiare il volto di un sogno per cui continuano a battersi tanti cittadini, a Roma come a Berlino, a Varsavia come ad Amsterdam, e ieri persino, con un tratto che è già nostalgico, nel centro di Londra. Anche se a
Bruxelles rilevano che la Brexit finora è ancora, almeno da un punto di vista normativo, inesistente: «Non abbiamo neppure ricevuto una lettera, ufficialmente la Brexit non esiste ancora, almeno da questa parte della Manica...».
«L’Europa è il nostro futuro comune», hanno scritto e firmato in 27. Sessanta anni dopo la firma dei Trattati di Roma. Un futuro che per ora, in attesa di dettagli, lascia tutti contenti, almeno a giudicare dai sorrisi e dagli applausi che i capi di Stato e di governo spendono nella Sala degli Orazi e dei Curiazi. Alcuni rappresentano un Regno, altri una Repubblica, altri ancora un Granducato. Una della sintesi la fa il polacco Donald Tusk, attuale presidente del Consiglio europeo: «O siamo uniti, o non siamo». Al suo fianco ha Joseph Muscat, premier del Paese più piccolo dell’Unione, Malta, che per curiosità è anche membro del Commonwealth. E ovviamente lo resterà, nonostante la Brexit.
Giornata di festa Merkel ammira la cappella Paolina; il lussemburghese presenta il marito