DOBBIAMO ABBANDONARE LA RETORICA DEL SUPER STATO
Trattato di Roma / 1 Servono dei nuovi obiettivi condivisi da tutti, come quelli realizzati da chi lavorò agli accordi preliminari della firma di 60 anni fa
Caro direttore, siamo al sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, che diede l’avvio a una costruzione europea che allora era piena di futuro e che oggi è piena di nuvolaglie di ripensamento. E vorrei ricordare quella piccola pattuglia di uomini cui fu accollato il compito delle trattative preliminari alla firma di Roma.
Vorrei ricordarli io che da giovane di bottega ebbi a conoscerli ed apprezzarli con una stima professionale che sento viva ancora oggi. La prima linea delle trattative fu gestita da un gruppetto composto da due straordinari diplomatici (Bobba e Ducci) e da un dirigente Svimez (Ceriani Sebregondi). I referenti di potere a Roma erano Menichella in Banca d’Italia, Giordani e Saraceno alla Svimez, Carli all’Ufficio Italiano Cambi e soprattutto l’Ambasciatore Attilio Cattani, mitico direttore degli affari economici a Palazzo Chigi (lì era a quel tempo la sede del ministero degli Esteri). Il tutto sotto la responsabilità politica di Segni e Martino, rispettivamente capo del governo e ministro degli Esteri, nel solco storicamente tracciato da De Gasperi e Vanoni da poco scomparsi. Poi in ombra, e decisamente marginali, c’erano i giovani incaricati del lavoro di bottega, di raccolta e istruttoria del materiale: Celestino Segni alla sequela del padre, io alla sequela di Ceriani Sebregondi, alcuni giovani diplomatici alla sequela di Cattani. Temo di essere l’unico sopravvissuto; e questa per me consolante circostanza mi induce a fare testimonianza di quello straordinario periodo, di quella straordinaria «delegazione di scopo», cui fu affidato il compito di costituire le basi dell’unità europea. Giova ricordare che in Italia negli anni 50 coesistevano due diversi poteri pubblici: quello dello Stato tradizionale, fatto di atti, procedure e strutture ministeriali; e quello di alcune importanti macchine di scopo, la Cassa per il Mezzogiorno e la sua galassia di enti collegati, il sistema delle partecipazioni industriali, gli enti di scopo nella ricerca scientifica, governati dai fisici e da Giordani.
Per andare in Europa la trattativa non fu affidata al primo di questi due apparati, giacché la macchina ordinaria dello Stato non sapeva neppure cosa fosse un trattato di unità europea mentre invece la pattuglia della trattativa faceva riferimento ad una cultura di «primato dello scopo» di stampo sovranazionale, una cultura che aveva il suo ceppo d’origine negli Stati Uniti di Roosevelt (con l’esperienza della Tennessee Valley Authority, del riarmo accelerato del ’42-43, dell’Unrra); veniva dalla filosofia dei finanziamenti di scopo della Banca Mondiale di Eugene Black; veniva dagli italiani che erano in stretto riferimento con Black (in Banca d’Italia Menichella e in Svimez Giordani); veniva dall’assorbimento di una cultura economica moderna lontana dalla tradizione accademica e dialogante con tanti grandi economisti (da P. Rosenstein Rodan a Vera Lutz) che si aggiravano nei corridoi della Banca d’Italia e della Svimez.
Forse incide la nostalgia del tempo perduto, ma è certo che la cultura dello sviluppo italiano non è stata mai più insieme concreta e sovranazionale come negli anni 50. E fu quella cultura che Bobba, Ducci e Sebregondi usarono nelle trattative per il Trattato: si batterono quindi per tre target collettivi cioè il libero mercato, la libera circolazione di manodopera, il recupero delle aree sottosviluppate (dal Mezzogiorno al Delta del Po, a quell’epoca pro- blema drammatico); lasciando all’azione politica successiva la libertà di andare su strutture settoriali di scopo, sull’esempio della Ceca per il carbone e l’acciaio, o dell’Euratom per l’energia nucleare.
Ma lì finì l’avventura. La pattuglia di scopo si dissolse, con il ritorno dei diplomatici nei ranghi della professione; con la improvvisa e drammatica scomparsa di Sebregondi; con l’uscita di Menichella dalla Banca d’Italia e di Giordani dalla Svimez; con Carli che si occupò di altro e con Saraceno che si dedicò a dar senso economico alla politica morotea. L’Italia così non consolidò un rapporto significativo con la classe dirigente europea (basterebbe rivedere le frustranti designazioni italiane agli incarichi
di vertice); e l’Europa non ebbe quello stimolo a fare quella «sovranazionale» politica di scopo che noi italiani avevamo assorbito ed agito nell’immediato dopoguerra. Tutte e due, Italia ed Europa, rimasero prigioniere di un assetto istituzionale pesante e burocratico, da cui non sorprende si sia diffusa la tentazione a fuggire.
Ma per chi ha vissuto quegli anni con entusiasmo non c’è spazio per assecondare il rigetto della costruzione europea; e perciò l’anniversario deve essere sfruttato per un ripensamento di fondo del processo europeo, che non può più ispirarsi ad una opzione istituzionale di grande apparato, sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri, quasi un «super Stato» che agisce per parametri, direttive, normative ed è gestito con uno statalismo desueto. E si comprende che di fronte a ciò aumenti la richiesta di maggiore articolazione decisionale: in nome di due o tre velocità, in nome della specificità territoriale, in nome dell’autonomia dei soggetti intermedi, magari in nome di più o meno pasticciate forme di democrazia diretta. Il dibattito in corso non esplicita fino in fondo questo bisogno di articolazione dei poteri europei; e mi sento quindi libero, io che non mi occupo di problemi europei da molti anni, di avanzare l’ipotesi di una politica europea «leggera», cioè non burocratica, che possa lavorare su target futuri e, se necessario, su strutture e su interventi di scopo.
Una torsione di questo tipo forse può risultare molto faticosa e al limite impossibile; ma senza di essa restiamo prigionieri di un destino statico e quasi implosivo; di uno scarso orientamento strategico; di vincoli parametrati; di bilancio e di vincoli normativi; al limite di estenuanti trattative su qualche decimale.
Noi italiani dovremmo essere i primi a cambiare il nostro contributo di cultura politica alla costruzione europea: smettiamola con la retorica del super Stato, ancorché giustificato da citazioni spinelliane; battiamoci invece per una logica di articolazione istituzionale: non accettando di ragionare solo e soltanto di «doppia velocità», ma dando impulso ad una logica di scopo; con definizione di scopi adatti ad un nuovo ciclo della dinamica europea; con la impostazione di politiche di scopo e di interventi di scopo; con la progressiva ideazione e sperimentazione di medie e grandi istituzioni di scopo. A questa filosofia si ispirava la citata «pattuglia dell’inizio»; e riproporla oggi può dar sostanza alla vecchia convinzione (molto italiana) che il futuro ha un cuore antico.