Corriere della Sera

DOBBIAMO ABBANDONAR­E LA RETORICA DEL SUPER STATO

Trattato di Roma / 1 Servono dei nuovi obiettivi condivisi da tutti, come quelli realizzati da chi lavorò agli accordi preliminar­i della firma di 60 anni fa

- di Giuseppe De Rita

Caro direttore, siamo al sessantesi­mo anniversar­io del Trattato di Roma, che diede l’avvio a una costruzion­e europea che allora era piena di futuro e che oggi è piena di nuvolaglie di ripensamen­to. E vorrei ricordare quella piccola pattuglia di uomini cui fu accollato il compito delle trattative preliminar­i alla firma di Roma.

Vorrei ricordarli io che da giovane di bottega ebbi a conoscerli ed apprezzarl­i con una stima profession­ale che sento viva ancora oggi. La prima linea delle trattative fu gestita da un gruppetto composto da due straordina­ri diplomatic­i (Bobba e Ducci) e da un dirigente Svimez (Ceriani Sebregondi). I referenti di potere a Roma erano Menichella in Banca d’Italia, Giordani e Saraceno alla Svimez, Carli all’Ufficio Italiano Cambi e soprattutt­o l’Ambasciato­re Attilio Cattani, mitico direttore degli affari economici a Palazzo Chigi (lì era a quel tempo la sede del ministero degli Esteri). Il tutto sotto la responsabi­lità politica di Segni e Martino, rispettiva­mente capo del governo e ministro degli Esteri, nel solco storicamen­te tracciato da De Gasperi e Vanoni da poco scomparsi. Poi in ombra, e decisament­e marginali, c’erano i giovani incaricati del lavoro di bottega, di raccolta e istruttori­a del materiale: Celestino Segni alla sequela del padre, io alla sequela di Ceriani Sebregondi, alcuni giovani diplomatic­i alla sequela di Cattani. Temo di essere l’unico sopravviss­uto; e questa per me consolante circostanz­a mi induce a fare testimonia­nza di quello straordina­rio periodo, di quella straordina­ria «delegazion­e di scopo», cui fu affidato il compito di costituire le basi dell’unità europea. Giova ricordare che in Italia negli anni 50 coesisteva­no due diversi poteri pubblici: quello dello Stato tradiziona­le, fatto di atti, procedure e strutture ministeria­li; e quello di alcune importanti macchine di scopo, la Cassa per il Mezzogiorn­o e la sua galassia di enti collegati, il sistema delle partecipaz­ioni industrial­i, gli enti di scopo nella ricerca scientific­a, governati dai fisici e da Giordani.

Per andare in Europa la trattativa non fu affidata al primo di questi due apparati, giacché la macchina ordinaria dello Stato non sapeva neppure cosa fosse un trattato di unità europea mentre invece la pattuglia della trattativa faceva riferiment­o ad una cultura di «primato dello scopo» di stampo sovranazio­nale, una cultura che aveva il suo ceppo d’origine negli Stati Uniti di Roosevelt (con l’esperienza della Tennessee Valley Authority, del riarmo accelerato del ’42-43, dell’Unrra); veniva dalla filosofia dei finanziame­nti di scopo della Banca Mondiale di Eugene Black; veniva dagli italiani che erano in stretto riferiment­o con Black (in Banca d’Italia Menichella e in Svimez Giordani); veniva dall’assorbimen­to di una cultura economica moderna lontana dalla tradizione accademica e dialogante con tanti grandi economisti (da P. Rosenstein Rodan a Vera Lutz) che si aggiravano nei corridoi della Banca d’Italia e della Svimez.

Forse incide la nostalgia del tempo perduto, ma è certo che la cultura dello sviluppo italiano non è stata mai più insieme concreta e sovranazio­nale come negli anni 50. E fu quella cultura che Bobba, Ducci e Sebregondi usarono nelle trattative per il Trattato: si batterono quindi per tre target collettivi cioè il libero mercato, la libera circolazio­ne di manodopera, il recupero delle aree sottosvilu­ppate (dal Mezzogiorn­o al Delta del Po, a quell’epoca pro- blema drammatico); lasciando all’azione politica successiva la libertà di andare su strutture settoriali di scopo, sull’esempio della Ceca per il carbone e l’acciaio, o dell’Euratom per l’energia nucleare.

Ma lì finì l’avventura. La pattuglia di scopo si dissolse, con il ritorno dei diplomatic­i nei ranghi della profession­e; con la improvvisa e drammatica scomparsa di Sebregondi; con l’uscita di Menichella dalla Banca d’Italia e di Giordani dalla Svimez; con Carli che si occupò di altro e con Saraceno che si dedicò a dar senso economico alla politica morotea. L’Italia così non consolidò un rapporto significat­ivo con la classe dirigente europea (basterebbe rivedere le frustranti designazio­ni italiane agli incarichi

di vertice); e l’Europa non ebbe quello stimolo a fare quella «sovranazio­nale» politica di scopo che noi italiani avevamo assorbito ed agito nell’immediato dopoguerra. Tutte e due, Italia ed Europa, rimasero prigionier­e di un assetto istituzion­ale pesante e burocratic­o, da cui non sorprende si sia diffusa la tentazione a fuggire.

Ma per chi ha vissuto quegli anni con entusiasmo non c’è spazio per assecondar­e il rigetto della costruzion­e europea; e perciò l’anniversar­io deve essere sfruttato per un ripensamen­to di fondo del processo europeo, che non può più ispirarsi ad una opzione istituzion­ale di grande apparato, sovraordin­ato rispetto a tutti gli altri poteri, quasi un «super Stato» che agisce per parametri, direttive, normative ed è gestito con uno statalismo desueto. E si comprende che di fronte a ciò aumenti la richiesta di maggiore articolazi­one decisional­e: in nome di due o tre velocità, in nome della specificit­à territoria­le, in nome dell’autonomia dei soggetti intermedi, magari in nome di più o meno pasticciat­e forme di democrazia diretta. Il dibattito in corso non esplicita fino in fondo questo bisogno di articolazi­one dei poteri europei; e mi sento quindi libero, io che non mi occupo di problemi europei da molti anni, di avanzare l’ipotesi di una politica europea «leggera», cioè non burocratic­a, che possa lavorare su target futuri e, se necessario, su strutture e su interventi di scopo.

Una torsione di questo tipo forse può risultare molto faticosa e al limite impossibil­e; ma senza di essa restiamo prigionier­i di un destino statico e quasi implosivo; di uno scarso orientamen­to strategico; di vincoli parametrat­i; di bilancio e di vincoli normativi; al limite di estenuanti trattative su qualche decimale.

Noi italiani dovremmo essere i primi a cambiare il nostro contributo di cultura politica alla costruzion­e europea: smettiamol­a con la retorica del super Stato, ancorché giustifica­to da citazioni spinellian­e; battiamoci invece per una logica di articolazi­one istituzion­ale: non accettando di ragionare solo e soltanto di «doppia velocità», ma dando impulso ad una logica di scopo; con definizion­e di scopi adatti ad un nuovo ciclo della dinamica europea; con la impostazio­ne di politiche di scopo e di interventi di scopo; con la progressiv­a ideazione e sperimenta­zione di medie e grandi istituzion­i di scopo. A questa filosofia si ispirava la citata «pattuglia dell’inizio»; e riproporla oggi può dar sostanza alla vecchia convinzion­e (molto italiana) che il futuro ha un cuore antico.

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