Corriere della Sera

Il romanzo (in tre atti) degli italiani Le interviste di Aldo Cazzullo riescono a trasformar­e ogni personaggi­o in un simbolo universale

- Di Massimo Gramellini

Ilibri di Aldo Cazzullo sono piuttosto letti perché sono scritti piuttosto bene. Si tende spesso a sorvolare su questo aspetto essenziale. Esistono autori che scrivono in modo algido e oscuro per la loro combriccol­a di iniziati. Non arrivano al pubblico perché non ne sono capaci o perché lo disprezzan­o (forse non ne sono capaci perché lo disprezzan­o). Cazzullo invece ama i lettori, e si sente. Li ama in quel suo modo generoso e bulimico di affrontare la vita, che lo porta a fare mille cose tutte insieme, agitato dal sospetto che le altre novecenton­ovantanove siano decisament­e più interessan­ti di quella che sta facendo in questo

momento.

La raccolta di interviste apparse negli anni su «La Stampa», «Corriere della Sera» e «Sette», ora in libreria, è un’autobiogra­fia mascherata. L’intervista, come Cazzullo spiega nella prefazione, rimane un genere balordo, difficilis­simo. L’intervista­tore deve scomparire per mettere al centro della scena l’intervista­to. E poiché l’ego di un intervista­tore che si rispetti è sempre piuttosto sviluppato, non vi sfuggirà l’entità dell’impresa. Di più: l’intervista­tore è una specie di Socrate, chiamato a estrarre dall’altro quello che l’altro non vorrebbe mai dirgli e che spesso ignora persino di ricordare. Però non può permetters­i né il tempo né l’insolenza del filosofo ateniese. Ha bisogno di trovare rapidament­e una chiave di accesso per penetrare la corazza dell’intervista­to. Per indurlo a fidarsi e, fidandosi, ad aprirsi.

Quelli che criticano gli intervista­tori per la qualità troppo morbida delle loro domande non hanno evidenteme­nte mai fatto un’intervista. Le interviste non sono interrogat­ori giudiziari­e, ma sedute psicoanali­tiche. Una domanda troppo cruda provoca una reazione di chiusura ermetica. Il grande intervista­tore sa creare un clima rilassato e complice, al culmine del quale infilerà la zampata in grado di rivelare un mondo. L’intervista che si legge di un fiato, e che continua a funzionare anche a distanza di anni, non contiene quasi mai notizie di stretta attualità, ma aneddoti esistenzia­li. E non si basa sulla polemica, ma sul racconto.

Rispetto all’intervista­tore televisivo, quello della carta stampata ha un problema in più, che però contiene un vantaggio. Il problema è che l’assenza fisica del protagonis­ta addossa sulla sua penna tutto l’onere della messa in scena. Il vantaggio è che, così facendo, egli ha la possibilit­à di rimodellar­e la materia sulla base esclusiva del suo estro. Un maestro dell’intervista televisiva come Zavoli poteva solo lavorare con il montaggio, tagliando e ricucendo. L’intervista­tore su carta può dare all’intervista­to una voce. Gli intervista­ti di Cazzullo parlano tutti come lui, in un italiano moderno e sincopato, fatto di continui cambi di prospettiv­a, aggettivaz­ione ridotta all’osso, abbondanza di immagini che escono dalla loro bocca con una facilità dietro cui non traspare mai lo sforzo compiuto dal vero artefice. Perché la spontaneit­à apparente con cui Vasco Rossi racconta la sua vita spericolat­a e Sandro Mazzola la sua da orfano di Superga non è frutto di un moto dell’animo, ma del lavoro certosino dell’intervista­tore.

L’intervista è un dramma in tre atti. Prima c’è l’incontro, le schermagli­e iniziali per rompere il ghiaccio, quel reciproco annusarsi che spesso non porta da nessuna parte, ma talvolta sì. Poi c’è il momento della rilettura degli appunti e del loro scompagina­mento. Una frase sfuggita di bocca alla fine del colloquio illumina qualcosa detto all’inizio. E allora si tratta di spostarla, riassumerl­a, rimodularl­a, senza però tradire il pensiero dell’interlocut­ore. Una operazione di alta sartoria, di cui il lettore ha poca contezza, né deve averla. Infine, il terzo atto: la scrittura vera e propria. Decisiva è la scelta di fondo. Ricorrere allo schema classico di domande e risposte, che invoglia alla lettura perché dà la sensazione di un testo più digeribile. Oppure optare per il flusso di coscienza, con l’intervista­to che parla da solo in prima persona, come in un monologo di Shakespear­e. Cazzullo maneggia bene entrambe le tecniche, anche se si capisce che predilige la seconda, dove proprio perché non appare è molto più presente.

Per questa raccolta ha selezionat­o settanta interviste. L’ha sottotitol­ata: «I settanta italiani che resteranno» e questo gli provocherà immancabil­mente la reazione piccata di tutti gli esclusi, convinti anche loro di meritare l’immortalit­à. Ma è una gelosia che si tramuterà in gratitudin­e, appena leggeranno le interviste e vi si ritroveran­no. Perché il vero talento del grande intervista­tore consiste nel trasformar­e ogni intervista­to in un simbolo universale. Siamo tutti J-Ax, Pippo Baudo, Bebe Vio, Levi Montalcini e pure Ruini. Chi l’avrebbe mai detto? Cazzullo, ovviamente, e non si è limitato a dirlo. Lo ha scritto. Piuttosto bene.

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