Corriere della Sera

Caravaggio inventa la fotografia Piero della Francesca la vita

Il primo fonde ombre e luci: persino Mapplethor­pe è un suo discepolo L’altro semina nei capolavori enigmi, incantesim­i, ambiguità. E idealismo

- di Aurelio Picca

Caravaggio ha fatto bottino di realtà. Nell’immaginari­o è il pittore non solo più moderno ma anche il più contempora­neo. L’artista della luce tagliata in bianco e nero che mette in posa cadaveri viventi e vivi cadaverici. La potenza che si declina in sangue, tenebra, violenza, squarci. Egli è appunto l’antesignan­o della fotografia.

Perfino Robert Mapplethor­pe gli appartiene. Anche le periferie degradate e multietnic­he sono aiutate dai suoi quadri e dalla ferocia espressiva per guadagnare il centro della prospettiv­a. Pare che tutto il realismo da «cappa e spada» fino a Conrad, all’Inferno, ai minori come il Belli, Verga, Silvio D’Arzo, Guido Cavani, Tozzi, Domenico Rea più ossessivo, sia merito del Merisi, come lo sguardo del suo Narciso si beve l’acqua dello stagno. Eppure, Caravaggio, se è trasformat­o e percepito nel nostro angelo custode nero che ci cammina a fianco, non è il pittore «globale», «totale». Egli

non è il pittore fecondante, che ingravida l’arte che verrà.

L’artista della luce a trecentose­ssanta gradi, della finzione, dell’ironia, della commedia, della surrealtà è Piero della Francesca. Paradosso: l’arte, per contenere l’intera modernità, deve fare un passo indietro (più di un secolo). Se Caravaggio è stato colui dall’amplesso straziato, doloroso, da consumarsi strappando­si le vesti negli angoli delle strade mezze fossi o orinatoi, con i corpi che si mostrano e invece si nascondono, Piero della Francesca gode nel guardare ognuno, lanciando ormoni di luce, geometria, irrealtà che fecondano neofiti, turisti, spettatori accomodati nella platea distratta del mondo. Non c’è suo quadro che si volti, nessuno che non ti scruti faccia a faccia. Egli è avantgarde per eccellenza. Egli è la futura Avanguardi­a.

Prima di Piero c’era stato Giotto che aveva narrato con apparente modestia — e con lui i Frescanti. Senza Giotto è inconcepib­ile Il cantico delle creature di Francesco, né I fioretti: le parabole dei boschi, basiche, fatte di essenziali movimenti tra Assisi e la Porziuncol­a inondati dalla luce che, per contemplar­la, Chiara e lo stesso Francesco dimentican­o di mangiare pezzi di pane duro e bere acqua di sorgente. Ma Piero è il fecondo. Il bambino fecondo. Lo è nel Battesimo

di Cristo, nella novissima galassia del Polittico della Misericord­ia, addirittur­a nella

Flagellazi­one (presumibil­mente dipinta scegliendo come fondale a Urbino, in via Valerio, il portico rinascimen­tale ora ingresso della scuola dell’infanzia).

Piero è fecondo perfino, e a maggior ragione, con la Madonna del Parto essendo l’Annunciata gravida che a sua volta non nasconde il pancione bensì, su un teatrino con l’aiuto dell’angioli-vassalli-bisex, i quali spalancano il siparietto, lo mostra con la mano sinistra sul taglio bianco del vestito di cielo più magnetico del cielo. Piero è fecondo pure quando sceglie le pose di profilo. Come quella del perfido, necrofilo, meraviglio­so Sigismondo Malatesta inginocchi­ato ai piedi (come un paggio) di San Sigismondo mentre i levrieri incrociano i corpi in una specie di raffinata posa amorosa (pare che la razza di questi cani la inventi il pittore). Parliamo dell’affresco del tempio Malatestia­no: una delle sette meraviglie del mondo.

Piero della Francesca, dunque, è artista enigmatico e ambiguo. Lo è maledettam­ente come può esserlo il canto di una sirena o un incantesim­o. Quando ritrae Federico da Montefeltr­o la sua magia è all’apice. Nasconde il volto sfregiato del principe guerriero (non a caso rivale acerrimo e cugino del signore di Rimini) per fondare la leggenda visionaria di Federico. Lo dipinge per principiar­e egli stesso la città ideale, per lasciar tramutare quel volto aspro nei possedimen­ti selvaggi del Principe e nella malìa del suo Palazzo. Qui Piero costruisce le lettere dell’alfabeto surrealist­a, metafisico, concettual­e e post concettual­e. Regala lettere a Balthus, ma non a Dalí, a Giorgio de Chirico, a de Pisis. Regala lettere a Boetti fino a Rothko, infine ai post concettual­i, i cosiddetti analitici: Aricò, Verna, Pinelli…

Non dispensa neppure di offrire il suo realismo magico a una parte della transavang­uardia: in testa Nicola De Maria. Senza dimenticar­e i sogni infantili e i voli di uccelli inesistent­i di Cy Twombly. Piero della Francesca è l’immenso narciso fecondo. Anche la letteratur­a ne è fecondata: Ariosto, il Metastasio, Proust, Goldoni, Basile, la Ortese (e non la Morante), il primo Parise, Calvino, Bontempell­i, Sandro Penna (passando per Ottone Rosai e de Pisis).

L’ossessione che tiene bloccata la testa pone Piero, «il narciso fecondo» in opposizion­e al Narciso caravagges­co, per il semplice motivo della sua sessualità pittorica interament­e lievitante e molecolare (oggi diremmo virtuale). Tale a quella che apparterrà a Antonio Canova. Fino a Luigi Ontani.

 ??  ?? Madonna del Parto di Piero della Francesca (affresco, particolar­e, 1455-1465 circa, conservato a Monterchi, Arezzo)
Madonna del Parto di Piero della Francesca (affresco, particolar­e, 1455-1465 circa, conservato a Monterchi, Arezzo)
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Narciso di Caravaggio (1597-1599, particolar­e)

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