Il capolavoro dei cartoon
La storia di un naufrago in un’isola deserta: «La tartaruga rossa» regala la bellezza poetica del grande cinema
Svilita e abusata da un uso eccessivo e scriteriato, la parola «capolavoro» ritrova il suo valore con un film come La tartaruga rossa che regala allo spettatore (adulto, nonostante la realizzazione a cartoni animati) la bellezza magica e commovente della poesia. Insieme alla rara esperienza di quella purezza del cinema che non ha bisogno nemmeno della parola per arrivare al cuore di chi guarda. Primo lungometraggio di Michaël Dudok De Wit, un autore olandese che lavora tra Inghilterra e Francia, il film — distribuito come «evento speciale» il 27, il 28 e il 29 marzo, con possibili proseguimenti di tenitura — è anche la prima coproduzione internazionale del giapponese Studio Ghibli. Il che dovrebbe già essere un bell’indicatore di qualità.
Nella prima parte, più realistica, il film racconta di un uomo in mezzo al mare che cerca di sopravvivere contro i flutti in tempesta. Non sappiamo da dove viene né come è capitato in quella situazione: lui resiste a fatica alle onde che lo sommergono, si aggrappa stremato al relitto di una barca e alla fine si ritrova senza forse sulla spiaggia di un’isoletta deserta. Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: l’uomo visto come naufrago, solo in un mondo abbandonato da tutti. A fargli «compagnia» solo alcuni simpatici granchietti. L’isola però è coperta da un folto bosco di bambù che offre la possibilità di costruire una zattera con cui mettersi in mare. Cosa che fa con ingegno e fatica, ma ogni volta che sembra aver iniziato la sua navigazione qualcosa da sotto le acque arriva a distruggere con forza la sua improvvisata barca. Al terzo attacco, e al terzo naufragio, scopre che si tratta di una gigantesca testuggine rossa che evidentemente non vuole che lasci quell’isola, animale su cui sfogherà la sua rabbia quando lo troverà impacciato che si trascina sulla spiaggia, rovesciandola sul dorso e lasciandola indifesa alla mercé del sole.
È adesso, dopo l’esplosione della violenza dell’uomo, che il film cambia sostanzialmente registro, per diventare qualcosa che è insieme realistico e fantastico, vero e immaginifico. Senza voler anticipare le tante sorprese che cambieranno la vita del naufrago sull’isola — e che chiedono allo spettatore almeno un po’ di fiducia nella forza delle fiabe — il film sembra perdere la sua bussola realistica per diventare qualcosa che oscilla tra la vita quotidiana e il sogno, tra la concretezza e i desideri.
Naturalmente, però, a Dudok De Wit non interessa solo raccontare l’avventura pur straordinaria di un sopravvissuto, ma guidare lo spettatore dentro un’esperienza più profonda e intensa, che è quella dell’Uomo e della Natura, del loro legame e rapporto. È il mistero della vita che domina i comportamenti di entrambi, lungo un percorso dove ogni cosa può ribaltarsi nel suo opposto, come l’improvvisa onda del mare che arriverà a spazzare l’isola e a lasciarla quasi senza forme e colori, come dovevano essere Hiroshima e Nagasaki dopo l’esplosione atomica. Qui non c’è stata l’opera dell’uomo ma della Natura eppure l’effetto sembra identico, a ricordare la finitudine di ogni cosa. Per poi, nell’eterno ciclo delle cose, mostrarci come quella stessa «forza» sia capace di far tornare la vita e cancellare la monotonia del grigio onnipresente.
Senza mai far ricorso alla parola, usando la testuggine come forma e metafora di quello che manca al naufrago per ritrovare la voglia di vivere, il film si trasforma scena dopo scena in un conte philosophique sull’Uomo, il suo slancio vitale e il bisogno di guardare oltre i propri orizzonti, mentre in parallelo la Natura svela agli occhi di chi sa guardare con la forza dell’immaginazione i misteri del creato, dell’amore e della procreazione.
Ma tutto questo perderebbe parte della sua efficacia se non fosse supportato da un disegno altrettanto delicato e magico che sa mescolare la grazia dell’acquarello (usato soprattutto per restituire la varietà delle sfumature della Natura) con la trattenuta precisione della «ligne claire», la sua capacità di restituire con nettezza i contorni dei personaggi senza però sottolineare troppo la loro distanza dallo sfondo, così da fondere perfettamente l’Uomo e la Natura. Proprio come fa il naufrago con la sua tartaruga rossa.