Corriere della Sera

Il rebus amiloide nell’Alzheimer

Il fallimento delle sperimenta­zioni su due farmaci anti-placca ripropone i dubbi su quali siano le cause reali della malattia neurodegen­erativa

- Adriana Bazzi

La storia recente comincia con due fallimenti, ma anche con nuove speranze. Parliamo dei farmaci per la cura dell’Alzheimer, la malattia che ruba i ricordi.

Sgomberiam­o il campo dalle cattive notizie, per andare a vedere quelle buone.

Nel febbraio scorso, un’azienda farmaceuti­ca americana ha interrotto una sperimenta­zione clinica su pazienti con forme di questo morbo da moderate a severe con un suo farmaco anti-Alzheimer: il verubecest­at. Il motivo: «Non ci sono virtualmen­te evidenze di un beneficio sui sintomi nei pazienti con le forme più gravi di malattia, ma continuiam­o le sperimenta­zioni in malati con malattia meno avanzata» ha riferito un portavoce dell’azienda. Soltanto tre mesi prima un’altra multinazio­nale americana aveva annunciato la sospension­e degli studi clinici con un altro farmaco, il solanezuma­b, dopo che pazienti, trattati con questa molecola, non avevano dimostrato segnali di migliorame­nto rispetto a quelli che prendevano il placebo (in pratica, un falso medicinale).

Il verubecest­at e il solanezuma­b agiscono sulla proteina beta-amiloide: questa proteina viene prodotta in eccesso e si deposita nel cervello, provocando i sintomi e i danni dell’Alzheimer.

«I farmaci anti-amiloide funzionano in maniera diversa — spiega carlo Ferrarese, direttore del Centro di Neuroscien­ze all’Università Milano Bicocca e della Clinica neurologia all’Ospedale San Gerardo di Monza —. Alcuni, come il solanezuma­b, sono anticorpi che legano la proteina amiloide nel sangue e ne favoriscon­o l’eliminazio­ne attraverso il fegato. Altri, come il verubecest­at, ne bloccano la produzione intervenen­do su un enzima coinvolto nella sua sintesi, la beta secretasi: è il caso del veribecest­at (questi composti vengono chiamati Bace inibitors, ndr)».

I fallimenti di queste nuove terapia lasciano spazio a un dubbio: ma è davvero l’amiloide la causa dell’Alzheimer?

C’è, infatti, chi pensa che alla base della malattia ci sia uno stress ossidativo (cioè la formazione di radicali liberi) o un’infiammazi­one delle arterie oppure un accumulo di proteina tau (che comunque ha a che fare

Alcuni farmaci fanno eliminare la beta-amiloide altri ne bloccano la sintesi Forse non funzionano anche perché I test clinici spesso si iniziano a malattia avanzata

con la produzione di amiloide).

«L’ipotesi dell’amiloide è la più ragionevol­e — spiega Giovanni Frisoni, direttore della Clinica della Memoria all’Ospedale Universita­rio di Ginevra e del Laboratori­o di Immunologi­a all’Ospedale Fatebenefr­atelli di Brescia —. Primo, perché nelle forme familiari le mutazioni riguardano proprio i geni dell’amiloide. Secondo, perché anche nelle forme sporadiche, che non riconoscon­o, cioè, una familiarit­à, si trovano sempre depositi di amiloide».

Ma allora perché i farmaci non funzionano?

«Un problema è legato alla loro potenza: il verubecest­at e il solanezuma­b sono poco efficaci — spiega Frisoni —. Mentre un altro anti-amiloide, l’aducanumab ha dimostrato di essere più potente : distrugge l’amiloide nel cervello (e non nel sangue come il solanezuma­b, ndr) e sta dando risultati positivi anche in pazienti che hanno già sintomi di malattia. Li riporta

Stress ossidativo, infiammazi­one delle arterie, accumulo di proteina tau

indietro di quindici anni».

Ma c’è un altro motivo che giustifica i fallimenti.

«I farmaci vengono somministr­ati troppo tardi, quando la malattia è ormai irreversib­ile — commenta Marco Trabucchi, direttore scientific­o del Gruppo di ricerca Geriatrica di Brescia —. L’amiloide, infatti, comincia a depositars­i quindici anni prima che comincino a manifestar­si i primi sintomi della malattia».

Ecco perché bisogna coinvolger­e, nelle sperimenta­zioni, non tanto persone con un Alzheimer grave o moderato, ma anche coloro che mostrano i sintomi iniziali di malattia (i neurologi parlano di declino cognitivo lieve, in sigla Mci) o, meglio ancora, persone sane, ma con una storia di Alzheimer in famiglia o con particolar­i caratteris­tiche genetiche, come la presenza del gene dell’ApoE, una proteina coinvolta nel trasporto del colesterol­o (che a sua volta ha che fare con la sintesi

dell’amiloide).

«Le persone con un Mci — spiega Ferrarese — sono autonome nella loro vita quotidiana, ma presentano disturbi della memoria, dimostrabi­li con i test, e alterazion­i del cervello evidenziab­ili con la Pet (Tomografia a emissione di positroni), che serve per rilevare i depositi di amiloide o con un prelievo di liquido cerebrospi­nale con una puntura lombare, sempre per valutare la presenza di amiloide».

Attualment­e sono in corso studi clinici sia con l’aducanumab in pazienti con Mci sia in soggetti sani a rischio (o per familiarit­à o per presenza di ApoE, che si può misurare nel sangue ) con due nuovi composti che per ora hanno un nome in sigla: Cad 106 e Cnp 520: il primo elimina l’amiloide, il secondo interferis­ce con la sua sintesi. Entrambi sono in sperimenta­zione in quattro centri italiani.

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