Il rebus amiloide nell’Alzheimer
Il fallimento delle sperimentazioni su due farmaci anti-placca ripropone i dubbi su quali siano le cause reali della malattia neurodegenerativa
La storia recente comincia con due fallimenti, ma anche con nuove speranze. Parliamo dei farmaci per la cura dell’Alzheimer, la malattia che ruba i ricordi.
Sgomberiamo il campo dalle cattive notizie, per andare a vedere quelle buone.
Nel febbraio scorso, un’azienda farmaceutica americana ha interrotto una sperimentazione clinica su pazienti con forme di questo morbo da moderate a severe con un suo farmaco anti-Alzheimer: il verubecestat. Il motivo: «Non ci sono virtualmente evidenze di un beneficio sui sintomi nei pazienti con le forme più gravi di malattia, ma continuiamo le sperimentazioni in malati con malattia meno avanzata» ha riferito un portavoce dell’azienda. Soltanto tre mesi prima un’altra multinazionale americana aveva annunciato la sospensione degli studi clinici con un altro farmaco, il solanezumab, dopo che pazienti, trattati con questa molecola, non avevano dimostrato segnali di miglioramento rispetto a quelli che prendevano il placebo (in pratica, un falso medicinale).
Il verubecestat e il solanezumab agiscono sulla proteina beta-amiloide: questa proteina viene prodotta in eccesso e si deposita nel cervello, provocando i sintomi e i danni dell’Alzheimer.
«I farmaci anti-amiloide funzionano in maniera diversa — spiega carlo Ferrarese, direttore del Centro di Neuroscienze all’Università Milano Bicocca e della Clinica neurologia all’Ospedale San Gerardo di Monza —. Alcuni, come il solanezumab, sono anticorpi che legano la proteina amiloide nel sangue e ne favoriscono l’eliminazione attraverso il fegato. Altri, come il verubecestat, ne bloccano la produzione intervenendo su un enzima coinvolto nella sua sintesi, la beta secretasi: è il caso del veribecestat (questi composti vengono chiamati Bace inibitors, ndr)».
I fallimenti di queste nuove terapia lasciano spazio a un dubbio: ma è davvero l’amiloide la causa dell’Alzheimer?
C’è, infatti, chi pensa che alla base della malattia ci sia uno stress ossidativo (cioè la formazione di radicali liberi) o un’infiammazione delle arterie oppure un accumulo di proteina tau (che comunque ha a che fare
Alcuni farmaci fanno eliminare la beta-amiloide altri ne bloccano la sintesi Forse non funzionano anche perché I test clinici spesso si iniziano a malattia avanzata
con la produzione di amiloide).
«L’ipotesi dell’amiloide è la più ragionevole — spiega Giovanni Frisoni, direttore della Clinica della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra e del Laboratorio di Immunologia all’Ospedale Fatebenefratelli di Brescia —. Primo, perché nelle forme familiari le mutazioni riguardano proprio i geni dell’amiloide. Secondo, perché anche nelle forme sporadiche, che non riconoscono, cioè, una familiarità, si trovano sempre depositi di amiloide».
Ma allora perché i farmaci non funzionano?
«Un problema è legato alla loro potenza: il verubecestat e il solanezumab sono poco efficaci — spiega Frisoni —. Mentre un altro anti-amiloide, l’aducanumab ha dimostrato di essere più potente : distrugge l’amiloide nel cervello (e non nel sangue come il solanezumab, ndr) e sta dando risultati positivi anche in pazienti che hanno già sintomi di malattia. Li riporta
Stress ossidativo, infiammazione delle arterie, accumulo di proteina tau
indietro di quindici anni».
Ma c’è un altro motivo che giustifica i fallimenti.
«I farmaci vengono somministrati troppo tardi, quando la malattia è ormai irreversibile — commenta Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di ricerca Geriatrica di Brescia —. L’amiloide, infatti, comincia a depositarsi quindici anni prima che comincino a manifestarsi i primi sintomi della malattia».
Ecco perché bisogna coinvolgere, nelle sperimentazioni, non tanto persone con un Alzheimer grave o moderato, ma anche coloro che mostrano i sintomi iniziali di malattia (i neurologi parlano di declino cognitivo lieve, in sigla Mci) o, meglio ancora, persone sane, ma con una storia di Alzheimer in famiglia o con particolari caratteristiche genetiche, come la presenza del gene dell’ApoE, una proteina coinvolta nel trasporto del colesterolo (che a sua volta ha che fare con la sintesi
dell’amiloide).
«Le persone con un Mci — spiega Ferrarese — sono autonome nella loro vita quotidiana, ma presentano disturbi della memoria, dimostrabili con i test, e alterazioni del cervello evidenziabili con la Pet (Tomografia a emissione di positroni), che serve per rilevare i depositi di amiloide o con un prelievo di liquido cerebrospinale con una puntura lombare, sempre per valutare la presenza di amiloide».
Attualmente sono in corso studi clinici sia con l’aducanumab in pazienti con Mci sia in soggetti sani a rischio (o per familiarità o per presenza di ApoE, che si può misurare nel sangue ) con due nuovi composti che per ora hanno un nome in sigla: Cad 106 e Cnp 520: il primo elimina l’amiloide, il secondo interferisce con la sua sintesi. Entrambi sono in sperimentazione in quattro centri italiani.