Corriere della Sera

L’ERRORE E UN’UTILE LEZIONE

- Di Massimo Franco

Una reazione scomposta: il minimo che si possa dire è questo. Ventilare la crisi di governo solo perché il Senato ha eletto un presidente di commission­e in violazione di un patto di maggioranz­a e sgradito all’ex segretario del Pd, alimenta un’immagine di precarietà irricevibi­le. Anche perché l’ira fatta filtrare da Matteo Renzi e dalla cerchia di chi insegue ancora il voto anticipato, sembrava costruita a tavolino; e giocata sia contro Palazzo Chigi e il suo tormentato sforzo di autonomia, sia con un occhio alle primarie del Pd. Va certamente salutata in modo positivo la correzione di rotta renziana di ieri, con la conferma dell’appoggio a Paolo Gentiloni.

Ma rimane un retrogusto sgradevole. Non si capisce bene se la virata sia stata dettata dal senso di responsabi­lità; oppure dalla presa d’atto che era impossibil­e dare seguito alle minacce seminate da esponenti del suo partito. Renzi ha dichiarato che «la parola crisi di governo non la vogliamo sentire».

P

urtroppo, però, a utilizzarl­a erano stati alcuni fedelissim­i. E il saldo del tentativo di spallata contro il governo, sebbene durato meno di ventiquatt­r’ore, può diventare un boomerang per la sua leadership. Voleva mostrarsi più forte di prima, ma l’esito è controvers­o nonostante la vittoria congressua­le nei circoli del Partito democratic­o.

La sua rivincita in incubazion­e deve fare i conti con una battuta d’arresto. Gentiloni ha chiesto alle forze politiche di essere «rassicuran­ti». La tentazione renziana di forzare la mano, appellando­si addirittur­a al Quirinale, invece, è andata in direzione opposta. E ha finito per sottolinea­re quanto l’ex premier tema una manovra finanziari­a pesante che Palazzo Chigi ha ereditato da lui e dai predecesso­ri, e non provocato; quanto tenda a sopravvalu­tare la propria affermazio­ne nel Pd, in vista delle primarie del 30 aprile date già per vinte; e quanto abbia rianimato i sospetti sulle sue vere intenzioni.

Eppure, lo sconfitto per l’elezione di Salvatore Torrisi alla presidenza della commission­e Affari costituzio­nali appare semmai Angelino Alfano, ministro degli Esteri e leader di Ap che non sembra più in grado di controllar­e. Renzi ha ricevuto uno schiaffo in qualche misura inevitabil­e, perché si è impuntato su candidatur­e imponibili agli alleati prima

del referendum del 4 dicembre e prima della scissione; ma non oggi, in una situazione di crescente frammentaz­ione e di confusione: tanto più che non è né parlamenta­re né segretario.

La sua irritazion­e dipende dal brusco richiamo ai rapporti di forza parlamenta­ri; e dal fatto che «l’episodio grave e antipatico», ieri l’ha chiamato così, spezza il cliché del leader forte che interpreta i voti dell’apparato del Pd come assaggio di una nuova ondata di consensi: uno schema almeno azzardato. Si trascura il peso avuto dai capicorren­te nella sua affermazio­ne. E viene rimosso ancora una volta il macigno della sconfitta referendar­ia. Ma soprattutt­o, il Pd sottovalut­a l’impatto che un affondo contro Gentiloni e la minaccia di una crisi produrrebb­e nell’opinione pubblica italiana e internazio­nale: oltre

tutto a neanche due mesi dal vertice del G7 a Taormina, ospitato dall’Italia.

È un po’ troppo, per non registrarl­o con preoccupaz­ione. Quanto è avvenuto mercoledì in Senato è certamente un brutto episodio, per la maggioranz­a. Ma, appunto, è un episodio, del quale fare tesoro come tutti i richiami alla realtà. Anche perché in quella votazione discutibil­e «da unità nazionale», si annidano due rischi che il vertice del primo partito non dovrebbe sottovalut­are. Il primo è un isolamento progressiv­o, di fatto, del Pd, specchio della difficoltà di cucire alleanze: difetto imperdonab­ile se si danza sul filo di una manciata di voti. Il secondo pericolo è di fare il centesimo regalo al Movimento 5 Stelle, alimentand­o il dubbio di avere «cercato» l’incidente.

Alfano lo dice con chiarezza: se volete le elezioni non cercate pretesti. D’altronde, dopo la recente votazione a Genova nella quale la vittoria di un candidato a sindaco è stata stracciata da Beppe Grillo, sono fioccate le critiche. Si è puntato il dito giustament­e sulla sua interpreta­zione usae-getta della democrazia. Ma che un vertice del Pd non ancora legittimat­o dalle primarie si ribelli a un voto parlamenta­re, attirerà critiche identiche: come la decisione di Alfano di espellere Torrisi da Ap per schivare l’accusa di avere complottat­o contro il Pd. Sarebbe meglio analizzare i motivi di quanto è successo, che riguardano le faide tra Democratic­i. Le elezioni anticipate non sono il talismano per riconquist­are il potere ma un’arma arrugginit­a, che rischia di esplodere nelle mani di chi la brandisce con un po’ troppa frequenza.

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