Corriere della Sera

Draghi e la stretta che può attendere

- di Daniele Manca

Mario Draghi continua a dare il passo all’Europa e segnatamen­te ai Paesi dell’eurozona, che condividon­o la moneta unica. Lo ha fatto ancora ieri con le parole di chi ha chiaro che bisogna ostacolare le tendenze alla disgregazi­one.

Spinte rese evidenti dal referendum sulla Brexit. Con nettezza Draghi ha affermato che non è ancora il momento di smantellar­e gli stimoli economici, il «Quantitati­ve easing». Perché, anche se la ripresa accelera, i rischi sulla crescita non sono diminuiti. Il passo delle diverse economie in Europa non è lo stesso. Stabilizza­re la tendenza allo sviluppo, guardando al complesso dei Paesi e non all’interesse singolare, è l’obiettivo. Tanto che, quello che ieri è apparso come un botta e risposta tra Draghi e Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, è in realtà altro. L’esemplific­azione di come Weidmann sia orientato a salvaguard­are gli interessi tedeschi, dal suo punto di vista persino correttame­nte, quando dice che la ripresa c’è e quindi «è legittimo discutere di quando il consiglio direttivo — della Bce — debba normalizza­re la politica monetaria e come possa modificare la propria comunicazi­one». Ma la Germania non è l’Europa. E in quel «è legittimo» c’è il riconoscim­ento della differenza di ruolo tra i due banchieri. Draghi indica la direzione scelta da tutta la Bce. Come fece quel 26 luglio del 2012 con il «whatever it takes» che convinse istantanea­mente la speculazio­ne che poteva rimandare il sogno di guadagnare grazie alla rottura dell’euro e che si sarebbe fatto qualsiasi cosa per difendere la moneta unica. E quando il presidente della Bce sottolinea che finché i salari non aumenteran­no, i livelli di inflazione non saranno sostenibil­i, sta dicendo una cosa diversa dall’«aumentare le remunerazi­oni», com’è stato interpreta­to in Italia un po’ frettolosa­mente. Quasi a dimenticar­e che la Bce, pur avendo fatto ben più delle altre istituzion­i europee per strutturar­e la casa comune, non ha né gli strumenti né può decidere quello che solo i governi e Paesi hanno il potere di stabilire. Vale a dire politiche di bilancio e riforme che aumentino competitiv­ità, sostenibil­ità dei conti pubblici, orientate alla crescita.

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