Legge elettorale, il Colle spinge ancora per l’intesa E c’è l’ipotesi di un decreto
Scatti di tensione come effetto riflesso della fase congressuale del Pd, quelli li davano per scontati. «Fino al 30 aprile ci sarà fermento», dicevano al Quirinale. Ma lo scontro politico nato sull’elezione di Salvatore Torrisi alla presidenza della Commissione affari costituzionali del Senato, li ha sorpresi. Anche perché si è accompagnato a richieste molto improprie dei vertici parlamentari dei democratici (coinvolgere il capo dello Stato, con una «irrituale» pretesa di incontro urgente, in una prova di forza parlamentare) e a parallele e neppur tanto velate minacce (mettere cioè in dubbio la tenuta del governo e far così partire il conto alla rovescia per il voto a ottobre).
Mosse istituzionalmente balorde. Drammatizzazioni spericolate che hanno avuto un’unica conseguenza, sul Colle: il rilancio della moral suasion di Sergio Mattarella. Il quale, a questo punto, vuole vedere chiaro sulle intenzioni dei partiti, quelli della maggioranza e non solo loro. Sentirà dunque riservatamente i leader, magari attraverso qualche emissario, come potrebbe succedere nel caso di Matteo Renzi, che al momento ha soltanto il rango di un comune cittadino.
Sullo scenario di fondo, il presidente della Repubblica non ha cambiato idea. Non consentirà salti nel buio, e quindi una fine anticipata della legislatura, se prima non sarà stata costruita una nuova legge elettorale, in grado di rendere omogenei i resti dell’Italicum sopravvissuti alla bocciatura della Corte costituzionale. Qualora non si riuscisse a fare neppure questo e si giocasse a far cadere il governo per correre alle urne senza armonizzare i sistemi di voto, rischieremmo addirittura di avere due diversi vincitori alla Camera e al Senato. Prospettive d’ingovernabilità sicura. Azzardi politici che, nel giudizio di Mattarella, sarebbe assurdo e pericoloso inseguire, tanto più in questa stagione di ancora troppo acerba ripresa economica.
La linea sul caso Senato Basterebbe almeno armonizzare i due sistemi di voto eliminando le differenze. Ma Mattarella si tiene fuori dalle dispute tra Pd e Ap
Per la verità un tentativo di mediazione è già in corso e non a caso lo avrebbe suggerito il Quirinale. E a quei tavoli, considerato che un’intesa larga e condivisa si rivela sempre più una chimera, si ragiona su come incentivare l’ipotesi di un accordo tecnico «al minimo», da concretizzare perfino con un decreto-legge, pur di chiudere il cerchio. Un accordo limitato ad alcuni punti specifici (la parità di genere nelle liste, la definizione dei collegi per il Senato, una selezione dei candidati per evitare sorteggi) che richiederanno riflessioni comuni e accordi a partire dal tema delle soglie di sbarramento e dei premi di maggioranza.
Ora, nella dialettica di tutti i negoziati, a un certo punto scatta l’urgenza di ridurre le distanze, e per riuscirci ci vuole la buona volontà di tutti. «Gli strumenti per determinare la rappresentanza devono essere compatibili e omogenei», ha ripetuto il capo dello Stato fino alla monotonia, a chi negli ultimi mesi è salito in udienza da lui. E ogni volta, richiamandosi al senso di responsabilità, ha aggiunto che questo è l’unico modo per mettere in sicurezza il sistema e recuperare una base di fiducia nel rapporto tra politica e cittadini.