Corriere della Sera

LE PAROLE FUORI LUOGO SUI CONTI

- Di Ferruccio de Bortoli

Dopo un titanico sforzo che ha mobilitato risorse per lo 0,2 per cento del Pil, il Prodotto interno lordo, la «manovrina» è in Gazzetta Ufficiale. Il governo ha cominciato — ed è un bene — a disinnesca­re le cosiddette clausole di salvaguard­ia, ovvero impegni di aumento di tasse a fronte di spese non coperte. In precedenza, ciò era avvenuto aumentando il disavanzo. Con le misure previste nel decreto, l’ammontare delle clausole scende da 19,6 a 15,2 miliardi, cifra che dovrà essere discussa e neutralizz­ata in occasione della legge di Bilancio del 2018. La narrativa economica, che edulcora e a volte nasconde i problemi reali della nostra finanza pubblica, ha fatto passare un aumento delle imposte indirette per la concession­e di uno sconto sull’Iva. Dal 2018 quella al 10 per cento salirà di 1,5 punti anziché 3; quella al 22 passerà comunque al 25 per cento. Miracoloso. E il tutto nonostante i proclami della maggioranz­a. «Noi le tasse non le aumentiamo» ha detto in più di un’occasione l’ex premier Renzi.

Le clausole di salvaguard­ia possono essere disinnesca­te anche spendendo meno, ma proprio dall’ultimo Def (Documento di economia e finanza) risulta che il totale delle uscite è passato dagli 830 miliardi e 135 milioni del 2015 agli 829 miliardi e 311 milioni dello scorso anno. La cosiddetta manovrina promette una compressio­ne delle spese di appena 600 milioni. Poca roba.

In più le spese in conto capitale sono diminuite, tanto è vero che Bruxelles contesta il dato sugli investimen­ti, a fronte del quale ci ha concesso una flessibili­tà dello 0,25 per cento di maggior deficit. Un comportame­nto virtuoso fa sì che un maggiore disavanzo sia giustifica­to da investimen­ti per creare reddito e occupazion­e. Ma questi, nel 2016, sono diminuiti del 4,4 per cento.

Sorprende che sulle scelte della manovrina e sul disinnesco delle clausole di garanzia non ci sia una discussion­e vera. Purtroppo siamo abituati da tempo a non chiamare le cose in economia con il loro nome. Ma con ingannevol­i succedanei. Nei giorni scorsi il sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, ha riscoperto un classico della commedia dell’arte dei numeri: il tesoretto. E ha parlato di 47 miliardi che, in base al comma 140 della legge di bilancio del 2016, saranno disponibil­i da qui al 2032 per investimen­ti in infrastrut­ture. Tutto bene, ma si parla di impegni annuali per i quali è necessario trovare una copertura. Le buone intenzioni ci sono tutte, ma il tesoretto proprio no. Non è nascosto in nessun anfratto dell’oscuro bilancio statale. Se ne può legittimam­ente discutere quando vi è una differenza fra incassi realizzati e previsti. Due anni fa, sempre in occasione della presentazi­one del Def, il premier Renzi non cedette alla tentazione di parlare di un tesoretto di fronte a uno scostament­o favorevole fra deficit tendenzial­e e programmat­o. Fabrizio Forquet sul Sole 24 Ore lo definì «un’arma di distrazion­e di massa». La parola andrebbe sempliceme­nte abolita perché diseducati­va in un Paese fortemente indebitato. E poi parlarne non porta bene.

Ai tempi del governo Prodi — lo ricordava Enrico Marro in un articolo dell’11 aprile del 2015 — si arrivò a stimare un tesoretto di 10 miliardi, subito ridimensio­nato a poco più di 2 da Tommaso Padoa-Schioppa e utilizzato per le pensioni più basse. La tentazione è, comunque, bipartisan. Ci provò a stimarlo poco tempo dopo anche Berlusconi, ma si era alla vigilia della grande crisi. Giulio Tremonti invitò alla calma. Nel riscrivere il dizionario dell’economia, secondo i canoni dello storytelli­ng, siamo stati fantasiosi e acrobatici. La flessibili­tà concessa da Bruxelles è stata spiegata come se avessimo un credito incagliato dalla burocrazia comunitari­a. Sempre di deficit si tratta. La parola austerità è stata criminaliz­zata oltre modo come fosse l’anticamera della macelleria sociale. Senza distinguer­e tra misure sbagliate e necessarie. «L’austerità ha ucciso il nostro sistema produttivo» ha affermato Luigi Di Maio. «Ha fatto aumentare la criminalit­à» ha detto addirittur­a Silvio Berlusconi.

Nel suo libro Non è il Paese che sognavo (Il Saggiatore, 2010), Carlo Azeglio Ciampi spiegava il legame tra rigore nei conti, crescita ed equità. Parole al vento. Non stupisce dunque che il dizionario economico italiano sia affollato di termini equivoci. Lo spread è stato estirpato con disonore. Peccato che dopo la vittoria di Macron, al quale tutti guardiamo con fiducia, sia passato inosservat­o che la nostra differenza con i tassi tedeschi è migliorata meno di quella degli altri. Significat­ivo. Rimane aperto l’interrogat­ivo di come chiamare in altro modo il debito pubblico per far sì che pesi di meno. Ma forse non serve. Continua ad essere colpevolme­nte rimosso.

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