I borghesi cattivi di Cannes
Haneke divide il Festival con il ritratto di una famiglia «Alludo all’egoismo sui migranti? Giudichi lo spettatore» Festival «Happy End» con Huppert e Trintignant accolto da applausi e fischi
CANNES Una dinastia di anime perdute, smarrite nei loro privilegi sociali ormai in decomposizione. «Non mi piace parlare dei miei film, ma cerco di attraversare la vita a occhi aperti e non posso non parlare della società del nostro tempo. Questa è una foto istantanea nella vita di una famiglia molto benestante, dell’autismo e dell’indifferenza in cui vive quella famiglia. È qualcosa che ci circonda, non si tratta solo di borghesia». Michael Haneke arriva col peso delle sue due Palme d’oro, Il nastro bianco e Amour; arriva ritrovando in Happy End le due star del suo precedente film a Cannes, Isabelle Huppert (al quarto lavoro con Haneke), e Jean-Louis Trintignant, che appare provato fisicamente, e non solo perché entra appoggiandosi al bastone. In Francia sono qualcosa di più di due star. Dunque, capirete l’attesa. Ma l’esito è stato controverso, alla proiezione stampa applausi e qualche buuh, il film è stato apprezzato soprattutto dai media anglosassoni: una soap opera satanica, una satira della borghesia.
È stato depistante il battage pubblicitario, alimentato dallo stesso Thierry Frémaux delegato generale del Festival, che aveva parlato dell’egoismo e dell’indifferenza di gente «perbene» rispetto ai migranti ridotti a statistica, privati di dignità, non più esseri umani. Non è un film sui migranti: è un film con i migranti. Nabiha Hakkari (era la terrorista in Che bella giornata di Checco Zalone), fa la domestica in quella famiglia di costruttori a Calais, in una scena viene definita con una battutaccia «la nostra schiava marocchina». In realtà Nabiha è di origine tunisina e i suoi genitori arrivarono in Francia senza soldi: «Faccio il ruolo di una ragazza che lavora duro e che ha avuto momenti difficili, ho rivissuto la storia dei miei genitori». Il nipote del patriarca, nella sequenza finale, invita provocatoriamente un gruppo di migranti a una elegante cerimonia familiare.
«Non voglio rispondere in maniera diretta sui migranti — dice il regista — non voglio interpretare i miei film, lo spettatore deve cercare risposte nel suo cuore e nella sua mente. Certamente parlo del modo cieco in cui viviamo, bombardati dalle informazioni, non sappiamo nulla di quello che succede». «Ma la realtà di quella gente non invitata al party alla fine irrompe nella vita di quella famiglia, è questo il lieto fine», dice Isabelle Huppert.
I migranti, nel buio dei sentimenti, in questa storia rappresentano un fondale nemmeno così chiaro, che però serve a illuminare la disfunzionalità familiare, tema caro al regista austro-tedesco. «Possono esserci dei riferimenti ad Amour, il protagonista ha perso la moglie e cerca la morte, ma qui lo fa in modo crudele, gettandosi dalla sedia a rotelle nell’acqua gelata». Trintignant ha un guizzo: «Al produttore ho detto, se mi perdete tra le onde venitemi a cercare, Cannes è importante dopo tutto».
«C’è anche la solitudine indotta dai social media, ma non è l’argomento principale», aggiunge Haneke. Non ride mai, tiene alta la sua fama di autore scontroso, severo, ieratico. Meticoloso sul set, ossessionato dai dettagli: «Però agli attori lascio tutta la libertà che vogliono». Il film uscirà in autunno in Italia grazie a Valerio De Paolis, che dal 2000 (tranne le due Palme) distribuisce i film di Haneke: «È un tipo chiuso, vive con la moglie antiquaria a Vienna. Quella famiglia della provincia francese vive in una bolla, se fossimo nel ‘600 sarebbe in un castello con i ponti levatoi alzati. Non c’è incomunicabilità: non sono proprio interessati a comunicare». Relazioni formali di fantasmi che fingono di occuparsi degli altri. E sono alla deriva. Soltanto la figlia del patriarca, Isabelle Huppert, cerca di salvare il salvabile dal crac finanziario e da tutto il resto. «Ma questa storia poteva essere ambientata in qualunque altra città europea», conclude Haneke.