La strage delle ragazzine
L’Isis rivendica l’attentato, 22 i morti. May: «Imminente un nuovo attacco, città presidiate»
La strage degli adolescenti. Sono ventidue le vittime per l’attentato di Manchester al termine del concerto della pop star, Ariana Grande. E almeno dodici i dispersi. La maggior parte giovanissimi, alcuni addirittura bambini. L’Isis ha rivendicato l’attentato. Il kamikaze è stato identificato: si chiamava Salman Abedi, 22 anni, inglese con origini libiche. L’uomo è morto facendo detonare l’esplosivo. Il fratello di Salman è uno dei tre arrestati.
Nel vicolo accanto all’Holiday Inn Express i cinque bidoni verdi che servono a tenere libero il posto dove parcheggiano i fornitori dell’hotel sono pieni di tovaglioli e fazzoletti di carta intrisi di sangue. Dal fondo di quello più lontano dall’ingresso, l’unico chiuso da un coperchio, spuntano una camicetta rosa e un paio di leggings lacerati, una scarpa sinistra Adidas Stan Smith decorata con brillantini, due telefonini Samsung spenti, alcuni poster accartocciati con la firma riprodotta di Ariana Grande, «World tour 2017».
Gli inglesi sono bravissimi a far sparire le tracce, a predicare il business as usual come manifestazione più immediata della resilienza di un popolo. Ma questa volta c’è qualcosa che rimane, anche il giorno dopo. E non solo perché la premier Theresa May appare a sera in tv per dire che «un altro attacco potrebbe
essere imminente». Le garze usate e gli involucri dei kit di primo soccorso gettati ai piedi dell’edificio abbandonato che costeggia il vicolo sono una leggera sbavatura nella consueta opera di rimozione, forse il segno della sorpresa davanti al superamento della linea di confine, all’indicibile che infine è avvenuto anche qui. «Mi hanno chiamato all’una di notte. Corri, che abbiamo bisogno di tutti». La ragazza abita poco distante, dall’altra parte di Corporation street, l’arteria che dal centro della città porta verso Victoria Station e l’Arena. E’ arrivata a Manchester quattro anni fa, insieme con una sua amica, siciliana come lei, lavora come addetta alle pulizie delle stanze dell’Holiday Inn. «C’erano decine di ambulanze incolonnate intorno all’edificio. La sala della colazione sembrava un ospedale da campo, quelli che si vedono nei film di guerra. Bambini e ragazzi stesi sui divani, sui tavoli, per terra, che piangevano e si lamentavano, volontari della Croce rossa che correvano da uno all’altro».
L’orrore non è in quegli indumenti macchiati di rosso nascosti in tutta fretta, nei palloncini rosa ormai sgonfi seminati ovunque a ricordare che era una festa. E neppure nel racconto di una nostra connazionale, alla quale bisogna garantire l’anonimato per preservarle il posto di lavoro e farla sfuggire alla draconiana politica di riservatezza dell’Holiday Inn Express, diventato per la sua vicinanza alla Manchester Arena avamposto della tragedia, rifugio per bambini che nella calca erano stati persi dai genitori, luogo di cure provvisorio e smistamento dei feriti più gravi. L’orrore è salire in macchina con un cronista del giornale cittadino, uscire di qualche chilometro, verso la «suburbia», periferia povera e disagiata. Fermarsi davanti a un cancello di legno usurato dal tempo, entrare in una modesta casa prefabbricata, dal pavimento in linoleum, con teli di nylon stesi sul divano, e sopra la signora Charlotte Campbell che piange e chiede notizia di Olivia, la sua unica figlia, «ha solo 15 anni, scrivete il mio numero di telefono, fatemi sapere». Confrontare la dignitosa miseria di questa madre sola, la ricrescita dei capelli alta due dita, avvolta in una
Il soccorritore «Bambini e ragazzi stesi sui divani, sui tavoli, per terra piangevano e si lamentavano»
Non accetteremo la sconfitta, e non vogliamo la vostra pietà, perché questo è il posto in cui si è forti insieme con un sorriso sulla faccia, «Mancunians» per sempre Tony Walsh, poeta
Bambini Un medico: «Non avrei mai pensato di sentirmi sollevato per non avere avuto bambini»
felpa sformata di una marca da discount, che si aggrappa alle braccia di sconosciuti per cercare conforto, con le immagini di Olivia sui social network, un gioiello di ragazza, vestita bene, elegante in abito da ballo. E pensare agli sforzi, alla fatica che ci vuole, crescere un figlio, farlo diventare l’unica ragione di vita, condannarsi a una inconfessabile apprensione che dalla sua nascita riempirà ogni istante di ogni giorno. Come per paura che si rompa, come fosse di cristallo.
E poi più niente, all’improvviso. Perché c’è un matto, una carogna con la mente annebbiata da una ideologia delirante, che alle 22.20 di un lunedì sera, una volta aperti i cancelli per far defluire il pubblico, si mette a due metri dall’uscita centrale e si fa saltare in aria, uccidendo 22 persone e mutilando decine di ragazze e ragazzi che non conosce, che non ha mai visto. «Quella è una cantante per adolescenti. Se vai per uccidere a un suo concerto, sai qual è il tuo bersaglio, sai chi ucciderai». Il dottor Nigel Ball è appena sbucato nel parcheggio interno del Children’s hospital, un cubo azzurro con infissi rosa alle finestre. Ha i capelli arruffati, l’aria da vecchio
hippy. Quando gli si chiede delle condizioni dei quindici ragazzi ricoverati, risponde così. «Non pensavo che nella mia vita potesse arrivare un giorno dove mi sarei sentito felice di non avere avuto figli».
Adesso dove la mettiamo questa ennesima strage, qual è il suo posto nel martirologio europeo degli ultimi due anni. Il confine dell’indicibile era già stato oltrepassato undici mesi fa a Nizza, con un camion che aveva puntato dritto sulle giostre e i fuochi d’artificio del 14 luglio. «Rischiamo di abituarci all’infamia peggiore» sibila Ferdinando Spadafora, titolare del Cheetam Pub nell’omonima via, uno dei tanti locali che hanno aperto la porta a chi fuggiva dalla Manchester Arena. «C’erano ragazzi con i vetri conficcati in faccia, altri che si trascinavano su gambe maciullate. Dovrebbero farle vedere, certe immagini. Non sappiamo mai se serve essere cattivi o essere buoni. Almeno cerchiamo di non dimenticare».
I piccoli gesti di eroismo di una città orgogliosa di se stessa, la corsa ad aprire le porte di casa per ospitare fuggiaschi e familiari disperati, la coda mattutina per donare il sangue, fino alla veglia collettiva, sono un esorcismo collettivo ormai consueto, un esercizio di umanità e solidarietà reciproca. Ma proprio alle 18, nell’ora in cui migliaia di «mancuniani» si radunano sotto alle bandiere a mezz’asta del municipio, due ragazzi varcano la soglia del gate 11 all’Etihad stadium. Gli uffici all’interno della tribuna dedicata al calciatore Colin Bell sono diventati il centro dell’unità di crisi. Colin e James hanno 17 anni, studiano nello stesso liceo. James cammina con le stampelle. Sono venuti a chiedere notizie di un loro compagno, per conto dei genitori. Escono dopo mezz’ora. Solo Colin alza lo sguardo verso i giornalisti in attesa. Scuote la testa, fa cenno di no. Le notizie non sono buone. «Manchester è unita» ha scritto Johnny Marr, l’ex chitarrista degli Smiths, una leggenda locale. Come ogni altra città colpita da questa follia. Ma ogni volta è più difficile.