Il Giro a Bormio
Nibali re della montagna Prima vittoria italiana
Ecco il Giogo di Santa Maria, il secondo Stelvio della settimana verticale. Visto dal versante svizzero, è austero come le sue case cantoniere. 13,400 km di salita, 1130 m di dislivello, 8% di pendenza media. Il Giro non era mai salito qui sopra. Per Nibalino la tentazione è irresistibile: firmare l’impresa in una data non banale («È un mese e un giorno dalla morte di Michele Scarponi»), dedicarla a chi ama («Bruna Franceschi, la mia seconda mamma, la signora che mi accolse a Mastromarco quando lasciai la Sicilia da ragazzino»), tornare a respirare aria rosa («Tappa spettacolare e dura, come piace a me»), ossigenata dall’altitudine (2502 m), lasciare una traccia indelebile nella neve fresca incontaminata. Tanta, lassù.
E allora a un chilometro dal Gran premio della montagna, con Dumoulin attardato da una sosta per problemi fisiologici e il gruppo sbriciolato da un’accelerazione cui avevano risposto solo Quintana, Zakarin e l’eroico Pozzovivo (gran Giro, il suo, fin qui), Nibali va. Alla sua maniera. Scarto a destra, da animale nervoso; progressione secca, da alpinista a due ruote. La madre di tutte le tappe, che aveva trattenuto il fiato sul Mortirolo e sugli interminabili 40 tornanti del primo Stelvio (battezzato da Fausto Coppi nel ’53), condensa le emozioni negli ultimi 20 chilometri.
C’è un fuggitivo, il basco orgoglioso Mikel Landa, da andare a prendere. Un Condor delle Ande, Nairo Quintana, a cui far abbassare le ali spocchiose. E una maglia rosa tradita dall’altitudine e dalla cattiva alimentazione, Tom Dumoulin, da tenere a distanza. Perché l’orange, salutato dal gregario Laurens Ten Dam, si dibatte a due minuti di ritardo, svuotato ma fiero, deformato ma ancora vagamente armonico, atteso dal gruppo il tempo giusto (restituito il favore della discesa di San Salvatore, quando il leader ordinò di rallentare per aspettare Quintana caduto) e poi abbandonato a se stesso. Testa ciondolante, bocca aperta, pedalata di piombo. La solitudine dei numeri primi.
Lo sport è un gioco spietato. «Io sono caduto, ho bucato, anche in maglia rosa: nessuno mi ha mai aspettato» dice Nibalino affilato e serio, con quella serietà che gli viene su dalle viscere della sua isola quando la questione si fa spessa, e non ha più voglia di scherzare. «Sennò mettiamo un arbitro che ferma la corsa, ma così snaturiamo il ciclismo…». E’ lì che si alza sui pedali e spinge, il vecchio Gattopardo impegnato nella difesa di un mondo che rischiava di crollare sotto i colpi del giovane di Maastricht, perché non è che in nome dell’Unione europea si può sacrificare proprio tutto. Di certo non il Giro cento. «La storia del ciclismo è piena di episodi del genere: mi ricordo Sagan in guai simili al Mondiale di Geelong. Non lo attesero».
Va, dunque. Davanti Landa e dietro Quintana, che gli si mette a ruota. Finito il tempo della pace armata («La cosa giusta per riprendere la fuga era collaborare, non c’è stato bisogno di spendere troppe parole»), inizia quello delle sportellate. Botte da orbi tra due smorfie di dolore, mentre Landa scollina in Italia sognando di regalarsi la tappa come risarcimento danni della caduta ai piedi del Blockhaus.
Però la discesa dal Giogo di Santa Maria è roba da equilibristi (l’olandese di riserva, Steven Kruijswijk, toccherà i 94,7 km/h), mica da corridori normali. E Nibalino, sbocciato in salita, è fenomenale anche a rotta di collo: il passato in mountain bike, le sgambate da ragazzo nei campi intorno a Messina, gli permettono di scavalcare con un agile saltello a ottanta all’ora, oplà, una chiazza di bagnato che non desidera gli sporchi la
Nibali Aspettare Dumoulin? Io sono caduto, ho bucato, anche in maglia rosa: nessuno mi ha mai aspettato