Il boss ucciso che fu imputato al maxi-processo e il «terzo livello»
L’omicidio commesso a Palermo alla vigilia delle celebrazione per il venticinquennale della strage di Capaci «è una profanazione», dice la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi. Nessun gesto simbolico o messaggio trasversale: solo uno sfregio, forse persino casuale. Ma un collegamento tra il piccolo boss Giuseppe Dainotti, assassinato lunedì mattina nel quartiere della Zisa, con il lavoro di Giovanni Falcone esiste comunque: Dainotti era stato imputato e condannato nel maxi-processo a Cosa nostra istruito dal giudice antimafia, per traffico di droga. Uno dei tanti, numero 113 nell’elenco, quasi un anonimo mescolato dal gotha mafioso finito per la prima volta alla sbarra. Poi prese l’ergastolo in un altro giudizio, è uscito di galera l’anno scorso ed evidentemente il suo ritorno in libertà ha rotto qualche equilibrio all’interno della «famiglia» d’appartenenza, come previsto dal questore di Palermo Renato Cortese dopo alcune recenti scarcerazioni. Fosse ancora vivo, Falcone definirebbe questo delitto un «omicidio di secondo livello». Al primo, nella sua classificazione, c’erano i morti ammazzati per procurarsi profitti tramite estorsioni, sequestri di persona e altri reati; al secondo i delitti «fra uomini d’onore per regolare problemi interni all’organizzazione»; infine gli omicidi «di terzo livello», a cui la mafia ricorre quando è necessario eliminare un «ostacolo esterno» come un magistrato, un investigatore, un politico. Solo a questo si riferiva Falcone, con quella espressione entrata nel linguaggio comune. E in seguito commentò: «Attraverso un percorso misterioso, per non so quale rozzezza intellettuale, il nostro terzo livello è diventato “il grande vecchio”, il “burattinaio”, che, dall’alto della sfera politica, tira le fila della mafia. Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche». Una spiegazione semplice, che invece s’è trasformata nell’accusa di voler negare l’esistenza di rapporti e collusioni tra mafia e politica; una delle tante che hanno avvelenato l’ultimo periodo della sua vita e del suo lavoro. Rapporti e collusioni che invece il magistrato non negava affatto: «Esistono una serie di collegamenti operativi eccellenti — spiegò in diverse occasioni — non con partiti o settori dello Stato, ma con individui che appartengono magari a partiti e a pezzi dello Stato. Si tratta di arrivare a quegli individui che appartengono alle istituzioni e tengono collegamenti con la mafia»: Parole chiare, bastava voler capire. Ma molti non vollero capire.
I collegamenti Il magistrato non negò i rapporti tra mafia e politica, però parlava non di «partiti o settori dello Stato, ma di individui»