Quelle vite sconvolte dal padre terrorista
«Dopo la guerra»: la lotta armata in Italia, l’esilio in Francia, la fuga
sul portale, ispirato a Dante, divennero sculture singole, tra cui i suoi due capolavori, Il pensatore e Il bacio. Rodin-Lindon dice che «Dante scolpiva con le parole, io sono solo un lavoratore manuale».
Lo sguardo dall’irrequietezza trattenuta, i capelli corti, la barba lunga, i suoi camicioni bianchi, lunghi fino alle caviglie. Ma non è stato solo un lavoro di somiglianza fisica: si tratta di entrare nella mente di della Francia, dove si era rifugiato da vent’anni. Così Marco (Giuseppe Battiston), insieme alla figlia sedicenne Viola (Charlotte Cétaire) deve prendere la strada della clandestinità.
Ma il film, che la regista ha scritto insieme a Delphine Agut, abbandona subito l’indagine poliziesca (non sapremo se Marco è coinvolto o no) per raccontare invece le ricadute che quelle scelte – la lotta armata, lo scontro con lo Stato Rodin, e nel suo tormentato genio creativo, «nell’interiorità delle sue sculture» che cercano le forme dalle modelle, dal tronco di un albero…
Ecco che le mani plasmano una dimensione carnale, danno forma a sculture sensuali che fecero scandalo, le immagini, impreziosite all’inizio da un frammento delle Partite e Sonate di Bach, ruotano a 360 gradi. Ma al Festival è come un quadro senza cornice. Doillon e il rifiuto della sua giustizia – hanno su chi ne paga solo le colpe: la figlia che si vede strappata alla sua vita e alle sue amiche, la sorella (Barbora Bobulova) che vive a Bologna e ha un marito giudice (Fabrizio Ferracane), la vecchia madre (Elisabetta Piccolomini).
Dopo la guerra non propone soluzioni «politiche» al problema dei terroristi che non hanno rinnegato le loro idee (come vediamo fare da Marco durante una tesissima intervista con una giornalista durante la latitanza), piuttosto ne ribadisce l’ineluttabile tragicità, ricordando l’esistenza di una ferita che nessuno sembra capace di chiudere e che il film riapre nella sua dolorosa drammaticità.
Anche in Cuori puri si parla di ribellione e di rabbia ma lontanissima da qualsiasi valenza direttamente politica.
I protagonisti del film, Agnese (Selene Caramazza) e Stefano (Simone Liberati) sono due giovani popolani del quartiere romano Tor Sapienza: lei, diciottenne, sente il peso di una madre apprensiva (ancora l’ottima Bobulova) e di un’educazione cattolica che vorrebbe ingabbiare la sua nascente sessualità; lui, venticinquenne, fa la guardia a un parcheggio, ha amicizie borderline come lo spacciatore Lele (Edoardo Pesce) e due genitori che vivono in una roulotte. L’intreccio di amore ed erotismo che li unirà, sarà anche quello che manderà in crisi le «certezze» su cui si erano appoggiati.
Perché la forza del film è soprattutto In auto Charlotte Cétaire e Giuseppe Battiston in una scena di «Dopo la guerra», in cui sono padre e figlia nella capacità di descrivere con giustezza un ambiente respingente (la povertà e la miseria morale di certe periferie) e illuminare le trappole che si nascondono dietro a convinzioni inossidabili (la fede che Don Luca, affidato a Stefano Fresi, trasmette con zelo assoluto).
È qui che De Paolis rivela qualità di scrittura e di regia davvero notevoli, nel usare i toni e le parole più appropriate per restituire lo squallore di certe periferie ma anche le rabbie nascoste, le ansie giovanili, le paure dei diversi, i sogni destinati a finire. E lo spunto cronachistico che la sceneggiatura del regista, Luca Infascelli, Carlo Salsa e Greta Scicchitano rielabora (Agnese è stata violentata? da chi?) finisce per diventare quasi insignificante di fronte alla forza con cui il film sa trovare una strada originale per raccontare un mondo che in tanti vorrebbero dimenticare.