Il boss 15enne come in Gomorra che uccide due affiliati del clan
Napoli, suo padre in carcere, lui è il reggente. «Assassinati per uno sgarro»
Data di nascita: dicembre 2000. Data di arresto: maggio 2017, ieri. Accusa: Duplice omicidio. Epoca del reato: giugno 2016.
È racchiusa in questi quattro elementi l’ultima storia di camorra che arriva da quella cupa e violenta periferia di Napoli delle serie televisive, capace di essere anche peggiore di come pur bravissimi registi e sceneggiatori la riportano sullo schermo.
Come in Gomorra la cronaca racconta di un assassino di quindici anni. Ovviamente un assassino presunto, però lo scenario ricostruito dai carabinieri è pieno di dettagli e riscontri, e soprattutto di voci dei protagonisti che, proprio loro, dubbi non ne hanno quando parlano di quei due trovati morti e di chi li ha ammazzati.
Gli unici nomi che si possono riportare sono quelli delle vittime: Alessandro Laperuta e Achir Mohamed, rinvenuti massacrati di proiettili in un appartamento di Melito, che è un paese della provincia ma sta attaccato a Napoli e in particolare a Secondigliano, e di quel quartiere è una propaggine, almeno per quanto riguarda le piazze dello spaccio di droga. E con la droga hanno a che fare i due assassinati: lavorano per conto del clan che controlla lo spaccio a Melito, quegli scissionisti che uscirono vincenti dalla faida di Scampia contro il clan Di Lauro ma che successivamente, dopo altri scontri interni, dovettero abbandonare il rione delle Vele e tornare nella loro zona. Dopo una lunga latitanza in Spagna, il capo degli scissionisti è finito in carcere e nell’estate dell’anno scorso a reggere il clan c’era sua moglie — poi arrestata anche lei — ma pure suo figlio, nonostante l’età. Formalmente né lui né i suoi amici avevano ruoli di vertice: comandavano gli adulti, che tra l’altro, almeno in quella fase, cercavano di evitare omicidi e sparatorie convinti che il silenzio delle armi bastasse a tenere lontani polizia e carabinieri. Con la moglie del capo c’erano gli anziani del clan, che predicavano calma assoluta. Perfino le risse avevano vietato: tutto doveva filare liscio per poter trafficare tranquillamente con la droga e rimettersi in sesto dopo i colpi subiti con gli arresti.
Ma i giovani, anzi i giovanissimi, non la pensavano così. E quando quei due spacciatori, che nella gerarchia del clan non erano gli ultimi ma avevano un discreto peso nella gestione delle piazze, cominciarono a dare segnali di pretesa autonomia, i giovanissimi non chiesero il permesso a nessuno prima di prendere la decisione. Con la scusa di una riunione li attirarono in casa del quindicenne, che aveva una base per conto suo condivisa con un amico, e qui — stando alle indagini — fu proprio lui a sparare in testa a uno e in faccia all’altro. Il piano probabilmente prevedeva che i corpi venissero poi portati chissà dove, ma fallì perché pure una delle vittime aveva un’arma e ferì il quindicenne, che dovette
quindi correre in ospedale lasciando in casa il macello che c’era. E scatenando, con quel duplice omicidio, la frustrazione di quelli che a suo padre erano sempre stati ed erano rimasti fedelissimi. Ecco come si sfoga con un amico l’anziano del clan. «Gliel’ho detto, non è il momento, quando sarà te lo faccio fare io ma adesso non è il momento». Ma quello, che a 15 anni di strategie criminali non capiva niente, non lo ha ascoltato. Lui voleva solo ammazzare.
L’intercettazione «Gliel’ho detto: non è il momento, quando sarà te lo faccio fare io, ma non adesso»