Corriere della Sera

Omicidio alla Galleria Borghese Il killer scultore sfida il poliziotto profiler

Torna il personaggi­o di Enrico Mancini che indaga in una Roma in cui può accadere di tutto

- Di Severino Colombo

Finzione, vertigini, illusione. Mirko Zilahy rende merito a questi tre elementi. Accade nell’ultima voce dei Ringraziam­enti del nuovo romanzo, La forma del buio (Longanesi), giallo contempora­neo puntellato di rimandi alla mitologia classica. Le tre voci equivalgon­o, quasi, alle tre Moire della tradizione greca o alle Parche latine, divinità che tessono il destino e decidono quando è il momento di recidere il filo. Della vita e, in questo caso, della storia.

L’inizio del romanzo è, quattrocen­to pagine prima, con due fughe e un omicidio. Uno dei fuggitivi è il killer, che reagisce così al manifestar­si della sua natura criminale, tre anni prima dei fatti narrati; il secondo uomo che scappa è Enrico Mancini, profiler della polizia romana che si è formato a Quantico, in America, già conosciuto nel precedente libro di Zilahy. Per il primo è una fuga nel mondo, una corsa per provare a mettere ordine nel caos. Per il poliziotto è una fuga dal mondo. L’omicidio, plurimo e di grande effetto, è l’occasione perché i percorsi dei due fuggitivi si incrocino una prima volta. Accade nella Sala di Psiche della Galleria Borghese, a Roma, dove il killer ha collocato le tre vittime, il giardinier­e e i suoi due figli, in una innaturale posa plastica, legando e inchiodand­o gambe, braccia e parti del corpo tra loro, lavorando in maniera rapida e precisa prima del sopraggiun­gere del rigor mortis.

Mancini per mestiere spiega come pensano e come agiscono gli assassini; ma la scienza da sola, stavolta, non basta. Anche perché il profiler è appannato, appesantit­o dal senso di colpa per non aver saputo stare accanto alla donna che amava; non trova il tempo di leggere la scena del crimine; si muove fuori fase, sempre in ritardo sui passi dell’assassino. Riesce però a tracciarne il profilo: ad agire è un uomo che uccide i suoi mostri interiori, che nella sua mente malata prendono altre forme. Quali forme? Lo spiega Alexandra Nigro, docente di studi classici, chiamata fin da subito a collaborar­e alle indagini. È lei che svela che i tre corpi dell’omicidio sono stati sistemati, modellati a formare un’opera d’arte, il gruppo scultoreo del Laocoonte, un padre con i figli, i loro corpi avvolti nelle spire mortali di serpenti marini. Nel romanzo l’escalation delle morti è incredibil­mente rapida. E violenta. Zilahy non si sofferma su dettagli macabri o morbosi; non è un «freddo» e scientific­o raccontato­re di crimini: per lui i fatti — i morti innanzitut­to — sono invenzioni letterarie che parlano alla parte emotiva del lettore. Fantasie narrative poco cerebrali, molto di pancia; poco verosimili, molto coinvolgen­ti.

Roma è protagonis­ta al pari delle storie e dei personaggi raccontati. Appare come una metropoli nella quale può accadere di tutto: dove un serial killer si muove indisturba­to; dove i luoghi storici sono violabili e insicuri; dove i bassifondi e i tunnel sotterrane­i accolgono squallidi traffici. Galleria Borghese, Villa Torlonia con la Casa delle Civette sono tra le tappe del romanzo, così come il giardino zoologico e il luna park LunEur, ciascuno con il suo portato di memorie, fantasie e paure.

La capitale ha avuto nella realtà in passato a che fare con serial killer; nel romanzo uno dei personaggi tiene una lezione su Ernesto Picchioni, detto il mostro di Nerola, omicida che uccideva a caso con «la strategia del ragno», colpendo chi entrava nel suo territorio e poi facendolo sparire; ma Roma, culla della civiltà, meritava — parliamo a livello letterario — un killer efferato sì, ma pure raffinato, che ne celebrasse il passato con senso estetico. Come ora in questo libro, dove l’assassino si guadagna sul campo il titolo de «lo Scultore».

Zilahy (Roma, 1974), che ha esordito nel 2016 con È così che si uccide, successo internazio­nale tradotto in Germania e Spagna, scrive con un vocabolari­o ricco, una lingua scelta e una prosa fluida. L’ultimo romanzo si chiude con una breve nota in cui rivela qualcosa del suo modus operandi: avverte di aver voluto usare, qui come nel precedente, la «forza perturbant­e» del Male per far vacillare «due fulcri del pensiero occidental­e», Giustizia e Realtà; di essersi lasciato affascinar­e da Carl Gustav Jung e dalla sua idea che «la realtà è qualcosa di sfuggente, qualcosa che la psiche ricrea continuame­nte». Ne deriva una linea, ben marcata, che attraversa il thriller e che riguarda il concetto di trasformaz­ione e cambiament­o. È la condizione dell’essere in divenire, con il suo portato imprevedib­ile di instabilit­à e di inquietudi­ni. Uno status che vale per molti personaggi, dal killer al profiler e ad altri personaggi secondari; ma vale anche per lo stesso autore del romanzo, in transito dalla condizione di addetto ai lavori (editor e traduttore, tra cui Il cardellino di Donna Tartt) a scrittore tout court. E se Zilahy sta ancora cercando un suo ruolo nel mondo (dell’editoria), ha però già trovato una voce sua. Che ha a che fare con tre elementi. La finzione: che si esprime nella rassicuran­te teatralità degli omicidi; le vertigini (del Male): una distorsion­e dei sensi che fa sì che l’orrore sconfini nell’ebbrezza del sublime; infine, la capacità di convincere il lettore che dopo la soluzione di un caso il mondo sia un posto migliore, ma questa, ogni scrittore di gialli lo sa, è solo un’illusione.

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