LO SPIRITO INQUIETO DEL PAESE
Quale messaggio hanno ricevuto dopo il 4 dicembre gli Italiani da Matteo Renzi? Cioè da colui che nel 2013 si era affacciato sulla scena nazionale sconvolgendola con un’immagine e un messaggio in grande parte nuovi, da colui che per tre anni aveva governato il Paese con un’inedita sebbene scemante incisività, che infine aveva deciso di dare un esito culminante a questa sua parabola puntando tutto su una rilevantissima riforma costituzionale? Che cosa hanno saputo di lui, e da lui, fino a oggi, dopo la clamorosa sconfitta che quel 4 dicembre lo ha costretto a lasciare Palazzo Chigi ?
Essenzialmente una cosa sola: che in realtà Matteo Renzi non voleva rinunciare affatto al potere perduto e intendeva ritornare al più presto al governo. Non importava molto in quale modo, anzi in ogni modo: tenendo lui a battesimo, o meglio al guinzaglio, il ministero Gentiloni; ribadendo il suo pieno dominio sul Partito democratico, sulla Rai e su tutto; affrettando il più possibile le elezioni; essendo disponibile a leggi elettorali anche assai diverse; lasciandosi le mani libere per ogni eventuale alleanza presente o futura. Insomma il giovane leader che si era presentato al Paese dicendosi disponibile solo per fare certe cose, per una sola politica, ora non si sapeva più che cosa intendesse fare, quali programmi avesse in mente se non ritornare al potere.
E a tutt’oggi non si sa. Dal 4 dicembre Renzi, infatti, non è stato più capace di dire nulla al Paese.
Ècome se il non aver avuto il coraggio di parlare in modo approfondito della propria sconfitta e dei suoi motivi, non aver avuto il coraggio di apparire un vinto alla platea che fin dall’inizio era stata davvero la sua — quella della più vasta opinione pubblica — gli abbia anche impedito di cercare la vera rivincita lì dove solo poteva ottenerla. Invece dopo il 4 dicembre i suoi unici interlocutori sono divenuti gli altri politici. Neanche durante la campagna per le primarie democratiche è riuscito a trovare qualcosa dell’empito antico, dell’antica capacità di convincere. La kermesse del Lingotto è stata la stanca ripetizione del già visto. Gli stessi riti, lo stesso battutismo, le stesse formule, e quasi sempre le stesse facce. Nessuna idea o proposta nuova capace di produrre interesse, sorpresa, mobilitazione. Di far scorgere il segnale di un nuovo inizio.
È questo remake che sta perdendo l’ex presidente del Consiglio, o che forse ormai lo ha già perduto. Ci sono sconfitte da cui alla fine si può uscire vincitori, altre che invece ridimensionano per sempre. È quest’ultimo caso ciò che sembra essere successo a Matteo Renzi: il 4 dicembre ha avviato la sua trasformazione da uno statista potenziale a una promessa mancata. Ma i suoi avversari e concorrenti non si illudano: se Renzi è stato ridimensionato loro sono restati i nani che erano.
Sicché oggi, mentre la crisi del renzismo riaccende la rissa generale, mentre perciò si rianimano le ambizioni di tutte le mosche cocchiere e di tutte le rancide vecchie glorie che a sinistra vaneggiano di coalizioni miracolose, al centro sognano di Grandi Centri e a destra di clamorosi ritorni,
lo spirito del Paese, invece, si rinchiude sempre di più in una inquietudine senza speranza che colpisce le opinioni più diverse. È l’inquietudine disperata di chi non riesce a vedere in nessuna parte politica la consapevolezza della gravità del declino italiano, né alcuna proposta credibile per farvi fronte, né alcuna serietà di propositi e soprattutto alcuna leadership all’altezza del compito che i tempi imporrebbero. È una disperazione muta che va oltre la tradizionale divisione tra Destra e Sinistra per lasciare spazio solo a un interrogativo comune: dove rivolgersi con un minimo di fiducia? In chi sperare? Nell’impossibilità di trovare una risposta l’unico esito è la crescita progressiva del numero di coloro che non vanno più a votare.
La verità è che dopo appena vent’anni dalla fine del sistema politico che aveva caratterizzato il primo mezzo secolo della Repubblica, oggi si sta
virtualmente disarticolando pure il secondo che gli era succeduto nel 1994-96. Alla fine delle ideologie novecentesche non siamo stati capaci di sostituire alcuna nuova idea del Paese, alcuna nuova narrazione del suo passato così come alcun nuovo progetto circa il suo futuro. E così una crisi si somma all’altra: a quella delle idee quella dello strumento partito. Delle prime non c’è più alcun segno di vita, dei secondi rimangono solo i loro simulacri rappresentati dai cosiddetti partiti personali (quelli attuali lo sono tutti): in pratica una coorte di seguaci tenuti insieme dal vincolo della convenienza/fedeltà destinato a durare finché dura la fortuna del capo. Ciò che ne risulta è sotto gli occhi di tutti: una vera e propria desertificazione politica dove esiste unicamente il giorno per giorno, che rende impossibile qualsiasi leadership autentica.
Forse non è un destino so- lamente dell’Italia. Ma da noi come sempre le conseguenze sono più gravi. Al vuoto delle idee e all’assenza dei partiti noi non abbiamo, infatti, la possibilità di supplire con l’iniziativa di solide istituzioni e di élite prestigiose e riconosciute, in grado come in Francia di fare blocco e di «inventarsi» dal nulla una leadership tipo quella di Macron, autentico Manchurian candidate arrivato al successo grazie ad uno straordinario colpo di fortuna.
Da noi la desertificazione politica significa solo da un lato ancora maggior potere alle lobby e alle corporazioni di ogni genere, sempre più autorizzate a fare quello che vogliono, dall’altro il via libera alle genuine pulsioni di una società «civile» che non ha fatto mai gran conto né dello Stato né dell’interesse collettivo. In entrambi i casi non proprio un gran bel viatico per il futuro.