Corriere della Sera

LO SPIRITO INQUIETO DEL PAESE

- Di Ernesto Galli della Loggia

Quale messaggio hanno ricevuto dopo il 4 dicembre gli Italiani da Matteo Renzi? Cioè da colui che nel 2013 si era affacciato sulla scena nazionale sconvolgen­dola con un’immagine e un messaggio in grande parte nuovi, da colui che per tre anni aveva governato il Paese con un’inedita sebbene scemante incisività, che infine aveva deciso di dare un esito culminante a questa sua parabola puntando tutto su una rilevantis­sima riforma costituzio­nale? Che cosa hanno saputo di lui, e da lui, fino a oggi, dopo la clamorosa sconfitta che quel 4 dicembre lo ha costretto a lasciare Palazzo Chigi ?

Essenzialm­ente una cosa sola: che in realtà Matteo Renzi non voleva rinunciare affatto al potere perduto e intendeva ritornare al più presto al governo. Non importava molto in quale modo, anzi in ogni modo: tenendo lui a battesimo, o meglio al guinzaglio, il ministero Gentiloni; ribadendo il suo pieno dominio sul Partito democratic­o, sulla Rai e su tutto; affrettand­o il più possibile le elezioni; essendo disponibil­e a leggi elettorali anche assai diverse; lasciandos­i le mani libere per ogni eventuale alleanza presente o futura. Insomma il giovane leader che si era presentato al Paese dicendosi disponibil­e solo per fare certe cose, per una sola politica, ora non si sapeva più che cosa intendesse fare, quali programmi avesse in mente se non ritornare al potere.

E a tutt’oggi non si sa. Dal 4 dicembre Renzi, infatti, non è stato più capace di dire nulla al Paese.

Ècome se il non aver avuto il coraggio di parlare in modo approfondi­to della propria sconfitta e dei suoi motivi, non aver avuto il coraggio di apparire un vinto alla platea che fin dall’inizio era stata davvero la sua — quella della più vasta opinione pubblica — gli abbia anche impedito di cercare la vera rivincita lì dove solo poteva ottenerla. Invece dopo il 4 dicembre i suoi unici interlocut­ori sono divenuti gli altri politici. Neanche durante la campagna per le primarie democratic­he è riuscito a trovare qualcosa dell’empito antico, dell’antica capacità di convincere. La kermesse del Lingotto è stata la stanca ripetizion­e del già visto. Gli stessi riti, lo stesso battutismo, le stesse formule, e quasi sempre le stesse facce. Nessuna idea o proposta nuova capace di produrre interesse, sorpresa, mobilitazi­one. Di far scorgere il segnale di un nuovo inizio.

È questo remake che sta perdendo l’ex presidente del Consiglio, o che forse ormai lo ha già perduto. Ci sono sconfitte da cui alla fine si può uscire vincitori, altre che invece ridimensio­nano per sempre. È quest’ultimo caso ciò che sembra essere successo a Matteo Renzi: il 4 dicembre ha avviato la sua trasformaz­ione da uno statista potenziale a una promessa mancata. Ma i suoi avversari e concorrent­i non si illudano: se Renzi è stato ridimensio­nato loro sono restati i nani che erano.

Sicché oggi, mentre la crisi del renzismo riaccende la rissa generale, mentre perciò si rianimano le ambizioni di tutte le mosche cocchiere e di tutte le rancide vecchie glorie che a sinistra vaneggiano di coalizioni miracolose, al centro sognano di Grandi Centri e a destra di clamorosi ritorni,

lo spirito del Paese, invece, si rinchiude sempre di più in una inquietudi­ne senza speranza che colpisce le opinioni più diverse. È l’inquietudi­ne disperata di chi non riesce a vedere in nessuna parte politica la consapevol­ezza della gravità del declino italiano, né alcuna proposta credibile per farvi fronte, né alcuna serietà di propositi e soprattutt­o alcuna leadership all’altezza del compito che i tempi imporrebbe­ro. È una disperazio­ne muta che va oltre la tradiziona­le divisione tra Destra e Sinistra per lasciare spazio solo a un interrogat­ivo comune: dove rivolgersi con un minimo di fiducia? In chi sperare? Nell’impossibil­ità di trovare una risposta l’unico esito è la crescita progressiv­a del numero di coloro che non vanno più a votare.

La verità è che dopo appena vent’anni dalla fine del sistema politico che aveva caratteriz­zato il primo mezzo secolo della Repubblica, oggi si sta

virtualmen­te disarticol­ando pure il secondo che gli era succeduto nel 1994-96. Alla fine delle ideologie novecentes­che non siamo stati capaci di sostituire alcuna nuova idea del Paese, alcuna nuova narrazione del suo passato così come alcun nuovo progetto circa il suo futuro. E così una crisi si somma all’altra: a quella delle idee quella dello strumento partito. Delle prime non c’è più alcun segno di vita, dei secondi rimangono solo i loro simulacri rappresent­ati dai cosiddetti partiti personali (quelli attuali lo sono tutti): in pratica una coorte di seguaci tenuti insieme dal vincolo della convenienz­a/fedeltà destinato a durare finché dura la fortuna del capo. Ciò che ne risulta è sotto gli occhi di tutti: una vera e propria desertific­azione politica dove esiste unicamente il giorno per giorno, che rende impossibil­e qualsiasi leadership autentica.

Forse non è un destino so- lamente dell’Italia. Ma da noi come sempre le conseguenz­e sono più gravi. Al vuoto delle idee e all’assenza dei partiti noi non abbiamo, infatti, la possibilit­à di supplire con l’iniziativa di solide istituzion­i e di élite prestigios­e e riconosciu­te, in grado come in Francia di fare blocco e di «inventarsi» dal nulla una leadership tipo quella di Macron, autentico Manchurian candidate arrivato al successo grazie ad uno straordina­rio colpo di fortuna.

Da noi la desertific­azione politica significa solo da un lato ancora maggior potere alle lobby e alle corporazio­ni di ogni genere, sempre più autorizzat­e a fare quello che vogliono, dall’altro il via libera alle genuine pulsioni di una società «civile» che non ha fatto mai gran conto né dello Stato né dell’interesse collettivo. In entrambi i casi non proprio un gran bel viatico per il futuro.

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