Il pulpito crollato nella moschea dove è nato l’Isis
Ciò che resta del pulpito della Moschea di Mosul nel giugno del 2014 Al Baghdadi proclamò lo Stato Islamico
Pezzi sparsi di marmo bianco e calcinacci, volumi del Corano con i fogli spiegazzati. Macerie. Ecco cosa resta della moschea Al Nuri. Qui il 29 giugno del 2014 Al Baghdadi proclamò il «Califfato» dello Stato Islamico.
Quasi non ci credi quando finalmente arrivi a trovartelo di fronte: fracassato, pezzi sparsi di marmo bianco e calcinacci, volumi del Corano dai fogli spiegazzati giacciono attorno tra le macerie. Eccolo il «minbar» della moschea Al Nuri, il pulpito dei sermoni più famoso della nostra era, quella del terrore di Isis e delle minacce del «Califfo». E’ ridotto a questo caos disperato, sporco, fatto di spari, incendi, fumo e bombe, che puzza di morte, l’odore dolciastro dei cadaveri in decomposizione sotto le rovine della cittadella medioevale. Mosul è in rovina, danneggiata al cuore, largamente da ricostruire. Tre anni fa, qui Abu Bakr al Baghdadi si autoproclamava Califfo, capo indiscusso di Isis. Prometteva un’era nuova, la glorificazione della purezza sunnita, dell’età dell’oro dei primi Califfi, la realizzazione di un’utopia fondata sulla soppressione di ogni oppositore «eretico». «Sono il vostro leader, sebbene io non sia migliore di voi», dichiarava sotto il turbante nero in una megalomaniaca apparizione, dove pretendeva persino di legittimarsi a discendente del Profeta. Il suo sogno folle e fanatico si infrange solo 36 mesi dopo. «Avveniva esattamente il 4 luglio 2014», precisa ad alta voce un generale delle truppe speciali irachene arrivato di corsa per farsi riprendere dalle televisioni di Bagdad, che adesso però procede lento, a passi incerti come tutti noi tra le montagne di macerie, con i soldati che mettono in guardia sul pericolo di mine nascoste.
Ci arriviamo da sud in tarda mattinata dopo una lunga attesa negli Humvee, i gipponi militari di fabbricazione americana, delle unità della «Brigata Dorata» irachena con la massiccia blindatura resa torrida dal sole implacabile. I media locali rilanciano la notizia per cui davvero Al Baghdadi po-
L’euforia dei soldati Tre anni fa i soldati erano in fuga, oggi hanno la meglio grazie agli aiuti del Pentagono
trebbe essere morto, come già ipotizzavano da Mosca un paio di settimane fa. Da Bagdad i comandi parlano ormai di «vittoria da annunciare ufficialmente entro un paio di giorni». E qui tra i soldati l’euforia è tanta. Tre anni fa erano ridotti a branchi di uomini in fuga, disperati, braccati dai jihadisti del Califfo che li sterminavano in gigantesche mattanze di massa riprese con i cellulari e messe in rete per diffondere il terrore e annullare la loro volontà di resistere. Oggi hanno la meglio. Sono stati addestrati e armati soprattutto dagli americani, sanno che ogni loro difficoltà sarà comunque superata grazie agli aiuti del Pentagono. L’Isis è battuto, sconfitto. Lo testimoniano le macerie polverose della Al Nuri. Sta ancora in piedi la porta d’accesso principale, con il cancello in ferro battuto e l’iscrizione verde sull’arco marmoreo che lo sovrasta. All’interno, il celebre minareto arcuato (lo chiamavano «il gobbo»)
fatto saltare in aria con furia nichilista dall’Isis nei giorni scorsi è l’unico elemento architettonico che sia ancora in qualche modo riconoscibile. La sua base decorata con bassorilievi antichi oltre 800 anni è ben visibile. E così anche i tronconi spezzati del corpo centrale. Ma il resto della struttura della moschea, una delle più antiche e famose dell’Iraq nell’era islamica, è un tappeto di macerie. Alti nel cielo volano i caccia americani che ogni tanto tirano bombe di precisione. Più bassi pattugliano i droni e gli elicotteri iracheni. Gli spari dei soldati con armi leggere sono continui.
Gli ultimi combattenti di Isis sono invece come talpe nelle loro tane. Stanno nascosti nel dedalo di tunnel e ricoveri sotterranei. Ogni tanto lanciano una bomba a mano, un loro cecchino tira per uccidere. Oppure cercano di piantare altre cariche esplosive tra i vicoli stretti per rallentare l’avanzata dei nemici. «Ovvio che ci sono ancora cellule di fanatici pronte a colpire. Sono sotto terra, escono all’improvviso e fanno imboscate alle spalle. Altri cercano di scappare nella notte per unirsi alle loro unità ancora forti verso Tal Afar e i villaggi che portano al confine con la Siria», dicono Riad Abdel Hussein e Eimad Aidan, due soldati quasi trentenni originari di Babel, una delle città sciite a sud di Bagdad. Impossibile tirare conclusioni certe, ma l’impressione è che la grande
maggioranza dei soldati delle unità combattenti in prima linea siano sciiti venuti dal Sud del Paese. I loro commilitoni stanno distribuendo bottigliette d’acqua ai civili che emergono come fantasmi impolverati da ciò che resta delle loro case. E qui non è difficile osservare una nota che stride con la propaganda rilanciata dalle autorità irachene. Loro parlano di «fratellanza» e «soldati liberatori» nei confronti di una popolazione che sarebbe ben contenta di venire finalmente salvata dal giogo di Isis. Ma qui a scappare sono soprattutto donne, malati, bambini e vecchi. Non sentiamo parlare di «scudi umani». Gli uomini quasi non ci sono e non è difficile scorgere occhiate d’odio da parte delle donne. «Siete contenti? Avete battuto l’Isis, perché adesso venite a chiederci anche i nostri nomi?», dicono aggressive un paio sulla trentina quando cerchiamo di intervistarle. I soldati vogliono sapere dove sono i loro mariti, i figli maschi più grandi. Controllano sospettosi i
rifugi sotterranei da dove esce questa fila continua di affamati e soprattutto assetati. Per i soldati ogni uomo giovane va trattato come fosse un terrorista potenziale, se non certo. Quelli che scorgiamo sono per lo più feriti, con le barbe lunghe, magrissimi.
La prima linea si è adesso spostata un centinaio di metri più a nord della moschea in direzione del Tigri. Quando la lasciamo verso le quindici tutta l’area è scossa da forti esplosioni con nuvole grigie che ammorbano l’aria. Una donna sviene, lasciando due bambini piccoli che fissano i gipponi con gli occhi sbarrati di paura. Le pattuglie cercano le bombe trappola. Ancora davanti alla Al Nuri, aprendo casualmente la serranda di un negozio, i soldati scoprono un’autobomba pronta per l’uso. Ma poi nessuno ci fa più caso. E’ arrivato un gippone carico di bottigliette d’acqua ghiacciate. E ci si accalca tutti per conquistarne almeno una.
Nel cielo Alti volano i caccia Usa, più bassi i droni e gli elicotteri iracheni Gli spari sono continui Non è difficile scorgere occhiate d’odio da parte delle donne. «Siete contenti? Avete battuto l’Isis, perché adesso venite a chiederci anche i nostri nomi?». I soldati vogliono sapere dove sono i loro mariti