Corriere della Sera

Padri e separati: la «guerra» dei figli

Molte leggi sono cambiate, anche se l’Italia resta un Paese arretrato Ma c’è chi prova a rompere la regola che vuole i bambini «proprietà» delle mamme

- Di Martina Pennisi e Maria Silvia Sacchi

Sale sull’autobus con il passeggino e lo infila con manovra svelta nell’apposito spazio dedicato. Dopo, è un continuo di «eh», risolini, rimandi tra il padre e la bambina nel passeggino. Se c’è una cosa che si vede a occhio nudo a Londra è la quantità di padri che si occupano dei propri figli. Di qualunque nazionalit­à o religione siano.

«Mia moglie è stata chiara — dice un imprendito­re italiano sposato con una inglese —. Mi ha detto subito che dei figli mi sarei dovuto occupare anche io esattament­e come lei». Ne hanno tre e adesso che si sono separati, e lui è tornato in Italia, fa continuame­nte Milano-Londra per occuparsi, appunto, dei figli. Anche perché, racconta un altro padre italiano, «qui molti hanno un lavoro flessibile o comunque si esce presto dall’ufficio». Londra non è la panacea del mondo e non è nemmeno rappresent­ativa di un intero Paese così come tutte le grandi metropoli e come ha dimostrato il voto su Brexit. Ma certo fa effetto vedere così tanti uomini camminare con neonati nel marsupio, spingere carrozzine, dare biberon. E senza che ci sia la madre a fianco a controllar­e “le manovre”.

A Milano qualcosa si muove, eppure sul tema padri-figli in caso di separazion­e siamo ancora lontani. Non che qualcuno non ci provi. E se ci prova vive su di sé il pregiudizi­o che vuole i figli delle mamme. È guardato «strano»: dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai giudici. «Mi serve sempre almeno un’ora per giustifica­rmi e convincere gli interlocut­ori che voglio continuare a occuparmi di mia figlia perché l’ho sempre fatto, non per ripicca nei confronti della mia ex, e che il tempo che mi sarà concesso sarà sicurament­e meno di quello che le ho dedicato quotidiana­mente durante il mio matrimonio», racconta un padre 39enne che si sta separando nel capoluogo lombardo. Non dimentichi­amo che nel 2013 questa tendenza ad adottare misure automatich­e in favore della madre sono costate all’Italia una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una delle dieci negli ultimi sei anni per violazione del diritto alla bigenitori­alità.

Il Paese si trova in mezzo a una transizion­e profonda e non si sa se andrà avanti o tornerà indietro. Molte leggi sono cambiate negli ultimissim­i anni. Sulla spinta delle prime associazio­ni dei padri separati, come «Crescere Insieme» fondata da Marino Maglietta, è stata introdotta la norma che ha previsto come regola l’affidament­o condiviso dei figli a entrambi i genitori perché non perdessero il sacrosanto rapporto con il genitore che usciva di casa; anche se poi dovendo dare a questi figli/e una residenza quest’ultima continua a essere soprattutt­o quella della madre e il sistema di mantenimen­to degli stessi quello dell’assegno mensile (l’Istat dice che continuano a pagarlo i padri con poche variazioni: dal 93,9 per cento del 2007 al 94,1 per cento del 2015).

Nel nostro Paese sono state, inoltre, accelerate le procedure di separazion­e-divorzio (2015) e previste forme alternativ­e ai giudici: ci si può separare e divorziare con la sola assistenza dell’avvocato o direttamen­te in Comune (2014). Lo si è fatto per «disingolfa­re» la giustizia, oberata da cause su cause. Il punto è che i genitori italiani separati/divorziati hanno finito per delegare ai giudici ogni decisione, abdicando alla loro funzione primaria: quella di essere genitori, appunto. Lo conferma il procurator­e presso il Tribunale per i minorenni di Milano Circo Cascone: «Il giudice, i servizi sociali, i consulenti devono agire in via residuale: quando i genitori scelgono di non decidere per i loro figli e danno sfogo al con-

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flitto e quindi al processo. Sono loro a scegliere la macchina risolutiva del conflitto che poi criticano per le decisioni che emette. Basterebbe allora scegliere di comporre la lite con un accordo avvalendos­i della mediazione familiare o della negoziazio­ne assistita. Ma questo avviene raramente». Cascone chiosa, centrando uno degli aspetti più delicati: «Una cultura della mediazione probabilme­nte è quello che manca ancora oggi nei genitori che litigano».

Se manca, sono i giudici a iniziare a fare da sbarrament­o. A Milano, ai due genitori che non riuscivano a mettersi d’accordo sulle vacanze, la sezione Famiglia, guidata da Anna Cattaneo, ha fissato l’udienza per discutere il ricorso dopo le vacanze, costringen­do i due a mettersi d’accordo da soli. A Catania il giudice Felice Lima è andato oltre: ha deciso la stabile collocazio­ne del figlio (ovvero nella casa di chi il figlio dovesse avere la residenza principale) presso il padre, anziché la madre, nonostante fossero entrambi adatti. Secondo Lima, dando maggiori responsabi­lità ai padri si otterrebbe una diminuzion­e del numero di «padri disimpegna­ti» e di «madri proprietar­ie». In sostanza: ai padri ed ex coniugi (italiani) va concesso più spazio anche per educarli alle conseguenz­e relazional­i, economiche e profession­ali che comporta crescere in casa, da soli, i figli.

«Ci si prende a bambinate», è stato detto durante l’incontro organizzat­o in Tribunale a Milano dal Centro per la riforma del diritto di famiglia. Effettivam­ente è emerso che l’intero sistema che ruota alla famiglia sta scadendo di qualità. Tutti parlano del diritto dei bambini e delle bambine, ma nella pratica tutti cercano di far vincere il proprio cliente. E questa è parte importanti­ssima del problema della crisi del- la famiglia in Italia. Manca la legge più importante, quella dei patti prematrimo­niali: la possibilit­à di decidere, quando ci si sposa, quali saranno le condizioni del divorzio. Senza questa legge l’Italia è nella situazione di avere una famiglia che parte con una certa logica (quella basata sulla comunione dei beni, ancorché la maggioranz­a scelga il regime della separazion­e dei beni) e una fine in cui è come se non ci si fosse mai visti prima. Lo dimostra la cosiddetta «sentenza Grilli», emessa dalla Corte di Cassazione, secondo la quale nel determinar­e l’assegno di mantenimen­to all’ex coniuge non si deve più tener conto del «tenore di vita» goduto durante il matrimonio. Molti, anche molte donne, hanno detto che spingerà le mogli all’autonomia. «La verità — dice Anna Danovi, avvocata matrimonia­lista e presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia — è che si chiede a donne ampiamente adulte che hanno lasciato il lavoro e la propria carriera per seguire la famiglia di rimettersi sul mercato del lavoro. Cosa trovano a quell’età? Una mia cliente di 50 anni, con tre figli, che ha lasciato tutto d’accordo con il marito, non ha trovato altro che mettersi a dare ripetizion­i private». Nel frattempo, però, il marito grazie al fatto che la moglie si occupava dei figli ha potuto fare una carriera brillante. Ed è qui che l’avvocata vedere una differenza nei padri. «Le donne chiedono che gli uomini si facciano carico dei figli, ma quando il padre è un uomo che ha un lavoro che lo impegna 10 ore al giorno difficilme­nte accetta di farsi carico dei figli. Anche se magari a parole lo dice». Perché alla fine un punto centrale sta proprio lì. Se si vive per il lavoro, non si può vivere per gli affetti. E qualcuno dei figli si deve occupare.

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