Corriere della Sera

Il più grande coro di tutti i tempi per un’anima fragile

- Di Emanuele Trevi

Eccolo qui, pochi minuti prima delle nove, nell’ultima luce della sera di luglio, dopo la sinfonia dello Zarathustr­a di Strauss, solenne e magica, nonostante il suo essere risaputa, come all’inizio di 2001: Odissea nello spazio. L’attimo è di quelli dove si riversa tutta intera la vita: il suo senso, la sua insensatez­za, quello che ricordi e quello che hai dimenticat­o. Avanzando verso la sua marea umana, sui 125 metri di palco (anche questo pare che sia un record) Vasco si offre come uno che non ha lasciato nulla a casa, probabilme­nte non vede un granché, piuttosto sembra aspirare l’odore della folla. Di questa gente, di queste duecentove­ntimila persone, si è detto tanto in questi giorni, forse anche più di quello, ben poco, che rimaneva da dire per lodare Vasco. Tra i tanti fatti memorabili di questo concerto, va annoverato anche il fatto che non saprei trovare nella storia della musica un altro esempio di tanta gente intenziona­ta non ad ascoltare, ma a cantare senza tregua tutti i pezzi previsti, dal primo all’ultimo. Forse più del più grande concerto, quello di questa notte verrà ricordato come il più grande coro di tutti i tempi. Si comincia subito così, con il primo pezzo in scaletta, «Colpa d’Alfredo», quella storia da notte storta in discoteca così sbilenca e patetica che solo Vasco avrebbe potuto renderla tanto interessan­te. È un perfetto ingresso nel mondo di Vasco, non fosse altro perché, come racconta lo scornacchi­ato protagonis­ta dell’avventura, la ragazza che se va con Alfredo proprio al Modena Park voleva essere portata... Iniziando il collegamen­to in tv, Paolo Bonolis ha definito alla perfezione l’opera di Vasco: il suo è un romanzo di formazione. Ogni canzone, in quarant’anni, è stata il nuovo capitolo della storia di qualcuno che impara il suo modo di stare al mondo. E la cosa più bella, più intensa di questo romanzo è il fatto che il suo protagonis­ta è qualcuno che certamente vive la sua vita fino in fondo, ma non come un superuomo, e nemmeno come l’ennesimo angelo ribelle del rock, lui è diverso, è un individuo fragile, straordina­riamente ricettivo come tutti i fragili, che della vita conoscono bene i larghi margini di sfiga ed approssima­zione. Ma tutta la gamma delle gioie e dei dolori dell’esistenza, comprese quelle più futili e stupide, ispirano a Vasco la stessa reazione primaria, che è la fonte della sua poesia: lo stupore. Se prova emozioni così vivide, è perché tutto sprigiona, al suo sguardo, una riserva di sorpresa. Noi amiamo, e siamo sorpresi da ciò che amiamo; confessiam­o qualcosa, e siamo sorpresi da ciò che confessiam­o. Tutte le canzoni di Vasco, in un modo o nell’altro, seguono questo schema. Fino al giorno in cui ciò che lo lascia a bocca aperta non è più niente di particolar­e, è una pura e semplice constatazi­one che si riduce alle famose «quattro parole»: io sono ancora qua. Sembrava la fine del mondo, canta Vasco con la sua irresistib­ile ironia. E invece, c’è stato sempre un invece: fino a stanotte.

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