Il più grande coro di tutti i tempi per un’anima fragile
Eccolo qui, pochi minuti prima delle nove, nell’ultima luce della sera di luglio, dopo la sinfonia dello Zarathustra di Strauss, solenne e magica, nonostante il suo essere risaputa, come all’inizio di 2001: Odissea nello spazio. L’attimo è di quelli dove si riversa tutta intera la vita: il suo senso, la sua insensatezza, quello che ricordi e quello che hai dimenticato. Avanzando verso la sua marea umana, sui 125 metri di palco (anche questo pare che sia un record) Vasco si offre come uno che non ha lasciato nulla a casa, probabilmente non vede un granché, piuttosto sembra aspirare l’odore della folla. Di questa gente, di queste duecentoventimila persone, si è detto tanto in questi giorni, forse anche più di quello, ben poco, che rimaneva da dire per lodare Vasco. Tra i tanti fatti memorabili di questo concerto, va annoverato anche il fatto che non saprei trovare nella storia della musica un altro esempio di tanta gente intenzionata non ad ascoltare, ma a cantare senza tregua tutti i pezzi previsti, dal primo all’ultimo. Forse più del più grande concerto, quello di questa notte verrà ricordato come il più grande coro di tutti i tempi. Si comincia subito così, con il primo pezzo in scaletta, «Colpa d’Alfredo», quella storia da notte storta in discoteca così sbilenca e patetica che solo Vasco avrebbe potuto renderla tanto interessante. È un perfetto ingresso nel mondo di Vasco, non fosse altro perché, come racconta lo scornacchiato protagonista dell’avventura, la ragazza che se va con Alfredo proprio al Modena Park voleva essere portata... Iniziando il collegamento in tv, Paolo Bonolis ha definito alla perfezione l’opera di Vasco: il suo è un romanzo di formazione. Ogni canzone, in quarant’anni, è stata il nuovo capitolo della storia di qualcuno che impara il suo modo di stare al mondo. E la cosa più bella, più intensa di questo romanzo è il fatto che il suo protagonista è qualcuno che certamente vive la sua vita fino in fondo, ma non come un superuomo, e nemmeno come l’ennesimo angelo ribelle del rock, lui è diverso, è un individuo fragile, straordinariamente ricettivo come tutti i fragili, che della vita conoscono bene i larghi margini di sfiga ed approssimazione. Ma tutta la gamma delle gioie e dei dolori dell’esistenza, comprese quelle più futili e stupide, ispirano a Vasco la stessa reazione primaria, che è la fonte della sua poesia: lo stupore. Se prova emozioni così vivide, è perché tutto sprigiona, al suo sguardo, una riserva di sorpresa. Noi amiamo, e siamo sorpresi da ciò che amiamo; confessiamo qualcosa, e siamo sorpresi da ciò che confessiamo. Tutte le canzoni di Vasco, in un modo o nell’altro, seguono questo schema. Fino al giorno in cui ciò che lo lascia a bocca aperta non è più niente di particolare, è una pura e semplice constatazione che si riduce alle famose «quattro parole»: io sono ancora qua. Sembrava la fine del mondo, canta Vasco con la sua irresistibile ironia. E invece, c’è stato sempre un invece: fino a stanotte.