Corriere della Sera

Patto sul clima Gli Usa riaprono

Il Segretario di Stato, Tillerson: gli Usa non lasceranno l’intesa di Parigi, se ci saranno regole più eque Il presidente francese Macron: il Protocollo non cambia. Ma c’è qualche margine di dialogo (già avviato)

- di Giuseppe Sarcina

DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

Il tono è cambiato. Basta prendere nota delle parole del Segretario di Stato, Rex Tillerson, intervista­to ieri dalla tv Cbs: «Il presidente Donald Trump è pronto a lavorare con gli altri partner dell’accordo di Parigi se sarà possibile fissare uno schema di regole eque e bilanciate per gli americani». Domanda diretta: «Gli Stati Uniti potrebbero restare nell’intesa?». Risposta di Tillerson: «Penso di sì, alle giuste condizioni». Il Segretario di Stato inserisce il «clima» nella lista delle urgenze, certo un gradino più in basso rispetto alla Corea del Nord e anche agli attacchi «acustici» contro i funzionari dell’Ambasciata americana a Cuba. «Stiamo valutando se chiuderla», annuncia Tillerson.

Su un’altra emittente, il consiglier­e per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster ragiona così: «Il presidente ha lasciato una porta aperta su Parigi. Si può rientrare più avanti, se ci sarà un compromess­o migliore per gli Usa».

Il «climate change» sarà uno dei temi dominanti dell’Assemblea dell’Onu che si apre domani a New York. I segnali sono chiari: gli americani stanno sondando quali siano i margini per rinegoziar­e il Protocollo sottoscrit­to il 12 dicembre del 2015 da 195 Paesi. Stando alle dichiarazi­oni ufficiali dei leader degli altri Paesi, a cominciare dal presidente francese Emmanuel Macron, non ce ne sono. Il documento è quello e non si cambia.

Trump lo aveva ripudiato pubblicame­nte il 3 giugno scorso, tornando dal G8 di Taormina. E ancora due sere fa la Casa Bianca ha reso noto che «la posizione non è mutata». Tuttavia in questo stesso comunicato, così come nelle dichiarazi­oni di Tillerson e McMaster, è visibile la traccia di una trattativa che, in qualche modo, sta prendendo forma.

Il problema, ora, è come sbloccare lo stallo giuridicop­olitico. Dopo l’annuncio del ritiro, l’amministra­zione di Washington si è scoperta isolata sul piano internazio­nale. E negli ultimi mesi le lobby dell’energia rinnovabil­e e dell’hitech hanno intensific­ato le pressioni sulla presidenza e, cosa da non trascurare, sul Congresso. Poi sono arrivati gli uragani Harvey e Irma che hanno colpito Texas e Florida, due Stati fondamenta­li per i repubblica­ni. L’emergenza ambiente è tornata nel vivo del dibattito pubblico e Trump, come è già successo sull’immigrazio­ne, sarebbe pronto a qualche correzione.

Tillerson conferma che il dossier è affidato al consiglier­e economico Gary Cohn: «Tocca a lui considerar­e in quali altri modi possiamo collaborar­e con i partner dell’Accordo di Parigi. Noi vogliamo essere costruttiv­i».

Cohn ha organizzat­o per oggi una riunione a New York con una dozzina di ministri «dei Paesi chiave». La discussion­e nel merito non è affatto semplice. Nessuno, nemmeno la Cina o la Russia, intende rinunciare ai punti cardine: l’impegno a contenere l’aumento della temperatur­a entro i 2 gradi rispetto ai livelli industrial­i oppure il contributo di 100 miliardi dai Paesi ricchi a quelli più poveri.

Lo schema, però, non è rigido. Sono previste verifiche ogni 5 anni e la prossima è fissata nel 2023. Gli Stati Uniti restano in ogni caso vincolati per 4 anni. In teoria il tempo per dialogare ci sarebbe.

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Fuga Profughi della minoranza musulmana Rohingya verso il Bangladesh

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