Patto sul clima Gli Usa riaprono
Il Segretario di Stato, Tillerson: gli Usa non lasceranno l’intesa di Parigi, se ci saranno regole più eque Il presidente francese Macron: il Protocollo non cambia. Ma c’è qualche margine di dialogo (già avviato)
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Il tono è cambiato. Basta prendere nota delle parole del Segretario di Stato, Rex Tillerson, intervistato ieri dalla tv Cbs: «Il presidente Donald Trump è pronto a lavorare con gli altri partner dell’accordo di Parigi se sarà possibile fissare uno schema di regole eque e bilanciate per gli americani». Domanda diretta: «Gli Stati Uniti potrebbero restare nell’intesa?». Risposta di Tillerson: «Penso di sì, alle giuste condizioni». Il Segretario di Stato inserisce il «clima» nella lista delle urgenze, certo un gradino più in basso rispetto alla Corea del Nord e anche agli attacchi «acustici» contro i funzionari dell’Ambasciata americana a Cuba. «Stiamo valutando se chiuderla», annuncia Tillerson.
Su un’altra emittente, il consigliere per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster ragiona così: «Il presidente ha lasciato una porta aperta su Parigi. Si può rientrare più avanti, se ci sarà un compromesso migliore per gli Usa».
Il «climate change» sarà uno dei temi dominanti dell’Assemblea dell’Onu che si apre domani a New York. I segnali sono chiari: gli americani stanno sondando quali siano i margini per rinegoziare il Protocollo sottoscritto il 12 dicembre del 2015 da 195 Paesi. Stando alle dichiarazioni ufficiali dei leader degli altri Paesi, a cominciare dal presidente francese Emmanuel Macron, non ce ne sono. Il documento è quello e non si cambia.
Trump lo aveva ripudiato pubblicamente il 3 giugno scorso, tornando dal G8 di Taormina. E ancora due sere fa la Casa Bianca ha reso noto che «la posizione non è mutata». Tuttavia in questo stesso comunicato, così come nelle dichiarazioni di Tillerson e McMaster, è visibile la traccia di una trattativa che, in qualche modo, sta prendendo forma.
Il problema, ora, è come sbloccare lo stallo giuridicopolitico. Dopo l’annuncio del ritiro, l’amministrazione di Washington si è scoperta isolata sul piano internazionale. E negli ultimi mesi le lobby dell’energia rinnovabile e dell’hitech hanno intensificato le pressioni sulla presidenza e, cosa da non trascurare, sul Congresso. Poi sono arrivati gli uragani Harvey e Irma che hanno colpito Texas e Florida, due Stati fondamentali per i repubblicani. L’emergenza ambiente è tornata nel vivo del dibattito pubblico e Trump, come è già successo sull’immigrazione, sarebbe pronto a qualche correzione.
Tillerson conferma che il dossier è affidato al consigliere economico Gary Cohn: «Tocca a lui considerare in quali altri modi possiamo collaborare con i partner dell’Accordo di Parigi. Noi vogliamo essere costruttivi».
Cohn ha organizzato per oggi una riunione a New York con una dozzina di ministri «dei Paesi chiave». La discussione nel merito non è affatto semplice. Nessuno, nemmeno la Cina o la Russia, intende rinunciare ai punti cardine: l’impegno a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi rispetto ai livelli industriali oppure il contributo di 100 miliardi dai Paesi ricchi a quelli più poveri.
Lo schema, però, non è rigido. Sono previste verifiche ogni 5 anni e la prossima è fissata nel 2023. Gli Stati Uniti restano in ogni caso vincolati per 4 anni. In teoria il tempo per dialogare ci sarebbe.