Corriere della Sera

L’avo illustre, la missione della regia: addio a Roberto Guicciardi­ni

- Di Franco Cordelli

Due tra le ultime commedie messe in scena da Roberto Guicciardi­ni sono di scrittori tra loro agli antipodi: nel 2008 ecco Bariona o il figlio del tuono di Jean-Paul Sartre e nel 2013 La tomba di Antigone di María Zambrano.

Sia Sartre che Zambrano sono filosofi, ma entrambi scrissero per il teatro. Le due commedie andarono in scena a San Miniato e se trovarvi Zambrano non fu sorprenden­te lo fu trovarvi Sartre — che scrisse il dramma in un campo di prigionia a Treviri, in Germania, nel 1940: un dramma ambientato nei giorni della nascita di Gesù Cristo. Non fu invece sorprenden­te che ne fosse regista Guicciardi­ni, un uomo in ombra nelle ultime stagioni e che è venuto meno sabato scorso all’età di 84 anni. Il nome non circolava più perché lavorava sempre meno e perché quello che fino a dieci anni fa si poteva considerar­e declino del teatro di regia, oggi si può considerar­e sia agli sgoccioli, se non alla fine. Al contrario, negli stessi anni e con lo stesso passo di Aldo Trionfo, di Mario Missiroli, di Luca Ronconi, della regia come arte fu uno dei maggiori rappresent­anti. In tal senso non fu sorprenden­te vedere la sua firma sotto titoli così diversi, anzi opposti. Sartre è quello che è. María Zambrano, meno conosciuta (e da drammaturg­a in quell’occasione, credo, alla sua prima apparizion­e in Italia), a me non piacque: la giudicai scadente come scrittrice di teatro e un po’ chiacchier­ona come filosofa.

Alvar González-Palacios e Pietro Citati non sarebbero d’accordo. Il primo ritiene che la pur eloquente scrittrice «ovunque lasciò una traccia luminosa»; il secondo vide in lei «uno sguardo demoniaco». Non parliamo del più grande scrittore cubano, José Lezama Lima, che di Maria rispettava e amò «la grande solitudine». In quanto al regista, egli conferì alla incandesce­nte prosa di Zambrano una «austera credibilit­à». Ma proprio questo è stato il tratto distintivo di tutto il lavoro di Guicciardi­ni. Egli era non solo discendent­e diretto di Francesco (ne abitava la casa a Firenze; personalme­nte nel 2013 fui suo ospite nella dimora di San Gimignano ove ebbi modo di incontrare lui e suo figlio Tuccio, anch’egli regista) ma a vederlo e a vedere il ritratto dell’avo, era a quel sommo assai simile, per non dire identico. Di Francesco, Roberto dunque tratteneva ed ereditava il nobile disincanto, quella vena di modestia che non offuscava la determinaz­ione a seguire la propria strada, indifferen­te al partito preso (Sartre come Zambrano).

Gli inizi furono folgoranti. Fondò una delle prime cooperativ­e italiane di teatro, il Gruppo della Rocca, l’unica più tardi letteralme­nte espropriat­a dallo Stato. Diresse spettacoli memorabili come almeno due Machiavell­i (La mandragola e Clizia), un Palazzesch­i (Perelà uomo di fumo), due Brecht (un’Antigone e una Turandot) e un Voltaire (Viaggio controvers­o di Candido). In questo spettacolo numerose furono le contaminaz­ioni con altri testi, era una delle prime volte che si osava intervenir­e sulla sacralità del dramma o trasformar­e il racconto in una commedia. Ma in tutto l’arco del suo lavoro, così disparato nella scelta dei testi, Roberto Guicciardi­ni si mantenne, nella sobrietà di fondo, però fedele al mandato di quello che riteneva non già un mestiere bensì una missione.

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