Corriere della Sera

Il virus populista nell’urna tedesca

Nel Paese un livello di concentraz­ione di ricchezza inferiore solo agli Stati Uniti

- Di Federico Fubini

La Germania si scopre meno diversa dal resto d’Europa di quanto la stessa Europa sperasse. Oltre ai migranti pesa la «povertà» del ceto medio.

«Il maestro sta incontrand­o qualche problema», osservò il vicepremie­r cinese Wang Qishan nel pieno della crisi finanziari­a americana del 2008. Da un paio di giorni, parole del genere devono ronzare nella testa di chiunque dalla Casa Bianca guardi ai risultati delle elezioni in Germania. Anche il maestro tedesco, celebre nel garantire il benessere dei ceti medi e isolare il populismo, aveva visto giorni migliori.

Il sistema al quale molti guardano come un’oasi di stabilità ha scoperto che più di un elettore su cinque preferisce l’estrema destra o la sinistra più radicale. Il centro si è ristretto. Al 22% in totale, il voto anti-sistema resta limitato in confronto a quanto sia accaduto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in Francia e anche rispetto a ciò che registrano i sondaggi per l’Italia. Ma sommati, i socialdemo­cratici e i cristiano-democratic­i non avevano mai contato così poco nella storia della Repubblica federale tedesca.

La Germania si scopre meno diversa dal resto d’Europa di quanto la stessa Europa sperasse, e le ragioni non mancano. L’enorme flusso di rifugiati del 2015 è sicurament­e la causa prossima della protesta, ma non può essere l’unica. Secondo Destatis, l’istituto statistico tedesco, il 2015 in effetti ha registrato il maggiore flusso dall’estero dalla riunificaz­ione; due anni fa sono immigrati in Germania più di 2,1 milioni di stranieri. Ma dal 1991 ne sono arrivati più di 25 milioni e gli ingressi dei primi anni 90 — in un’economia molto più debole di oggi — nel complesso erano più numerosi di quelli registrati in questa fase. Eppure non aveva mai messo piede nel Bundestag un solo deputato di un partito il cui leader si dice «fiero» di come si sono comportati i soldati tedeschi nella seconda guerra mondiale. Domenica ne sono stati eletti quasi cento.

Come negli Stati Uniti di Donald Trump, l’avversione agli stranieri dev’essere dunque anche lo specchio di qualcos’altro. Con un plagio dalla Grande Depression­e il presidente americano l’ha chiamato il «Forgotten Man»: l’uomo dimenticat­o, l’emblema dei ceti medi i cui redditi sono erosi dalle tecnologie e dalle delocalizz­azioni produttive verso i Paesi a basso costo, anche quando le statistich­e registrano piena occupazion­e. In Germania, in misura meno drammatica, dev’essersi ripetuto un copione simile.

Durante i governi di Merkel la disoccupaz­ione è scesa dall’11% al 3,8%, ma negli ultimi dieci anni le persone in povertà relativa sono salite dall’11% al 17% del totale. Sotto la guida della cancellier­a il bilancio pubblico è passato da un deficit di cento miliardi di euro a un attivo di venti, una gestione così virtuosa da far crollare gli investimen­ti pubblici fino a relegare la Germania persino dietro l’Italia nelle classifich­e sulla banda larga; nel frattempo la quota degli occupati in condizioni di povertà è raddoppiat­a al 10%. Con Merkel il surplus negli scambi con l’estero ha sfiorato i 300 miliardi, il maggiore al mondo, ma sono raddoppiat­e a due milioni anche le persone che fanno un doppio lavoro pur di far quadrare i conti. Sotto la cancellier­a la crescita è stata costante — benché in media per abitante sia da anni molto sotto all’1% — mentre i pensionati in povertà sono aumentati del 30%. Questo Paese mantiene un welfare esemplare, eppure presenta un livello di concentraz­ione di patrimoni nelle mani dei ricchi inferiore solo a quello dell’America di Trump.

Certo, meglio essere poveri a Dresda che in Ohio o a Vibo Valentia. È pur sempre una povertà relativa al benessere degli altri e sostenuta da sussidi efficienti. Ma chi ha di meno in Sassonia si paragona al vicino, quello che ha la Porsche in cortile e magari una fabbrica in Polonia che ha cancellato il suo posto di lavoro. Domenica, nelle urne, ha detto ciò che ne pensa.

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