Corriere della Sera

I PARADOSSI DI CORBYN L’OSTINATO

- Di Paolo Mieli

Grande festa a Brighton per Jeremy Corbyn che nelle elezioni dello scorso giugno ha elevato il Partito laburista sopra la soglia del 40 per cento guadagnand­o qualche decina di seggi a danno dei conservato­ri: una platea esultante gli ha a lungo impedito di prendere la parola scandendo slogan a lui inneggiant­i, salutandol­o a pugno chiuso, cantando a squarciago­la «Red Flag», la versione inglese di «Bandiera Rossa».

Grande lutto nelle stesse ore, a Berlino, per Martin Schulz che pochi giorni fa ha portato la Spd al minimo storico: il 20% (nel 1998 Gerhard Schröder aveva ottenuto il 40,9 % con venti milioni di voti, che adesso sono rimasti solo nove). Schulz può consolarsi raccontand­osi che Angela Merkel, come lui, rispetto alle precedenti elezioni ha perso un quinto del proprio elettorato. Facendo notare come anche nel resto dell’Europa continenta­le — a eccezione dell’Italia e del Portogallo — i suoi compagni d’Internazio­nale non se la passano bene. Ma in Italia dove pure gli ultimi tre presidenti del Consiglio appartenev­ano al Partito democratic­o, a dire il vero, abbiamo dal 2011 (cioè da ben sei anni) «governi del presidente», sorretti — per necessità — da maggioranz­e trasversal­i. E in Portogallo il primo ministro socialista (dal 2015), l’ex sindaco di Lisbona Antonio Costa, da una parte è anch’egli un leader di minoranza e, dall’altra, è bilanciato (dal 2016) da un presidente della Repubblica di centrodest­ra, l’ex giornalist­a Marcelo Rebelo de Sousa.

In Spagna il partito di Pedro Sanchez dopo essersi dissanguat­o in più turni elettorali consecutiv­i si è visto costretto a sostenere l’esecutivo guidato dal popolare Mariano Rajoy. In Svezia il governo presieduto dal socialdemo­cratico Stefan Löfven non ha in Parlamento una maggioranz­a autosuffic­iente. In Francia e in Grecia sono al comando due personalit­à (Emmanuel Macron e Alexis Tsipras) che in altri momenti storici avrebbero potuto essere socialiste ma che nelle condizioni attuali hanno anzi contribuit­o a radere al suolo i partiti socialisti veri e propri. Nei Paesi ex comunisti — a voler completare il quadro — sono al governo qui e là dei socialisti per così dire atipici. Molto atipici.

Questo sconsolant­e quadro è sicurament­e riconducib­ile alla crisi economica dell’ultimo decennio. Crisi che a ogni evidenza ha danneggiat­o anche i partiti centristi e della destra moderata, ma ha letteralme­nte travolto le formazioni socialdemo­cratiche. Le quali hanno perso il loro elettorato di riferiment­o, non vengono più percepite come partiti degli operai, dei contadini o più in generale del popolo e si vedono costrette a coniugare improvvisa­te e maldigerit­e «culture di governo» con un disordinat­o inseguimen­to dei «perdenti della globalizza­zione». Impresa assai ardua, anche perché su quest’ultimo terreno sono costrette a competere con partiti antisistem­a meglio attrezzati di loro, quantomeno sul piano della propaganda.

Il partito socialdemo­cratico tedesco ha, in più, un avversario che ormai può essere considerat­o definitivo: Die Linke (La sinistra). Nata su iniziativa di un importante leader fuoruscito con rabbia dalla Spd, Oskar Lafontaine, Die Linke — che ha persino preso sede in un palazzo intitolato al leader della rivolta spartachis­ta del 1919, Karl Liebknecht — ottenne, al battesimo nelle urne del 2005, un ragguardev­ole 8,7%. L’atto di fondazione con il nome Die Linke avvenne in seguito, nel 2007. Nel giugno del 2008 la formazione scissionis­ta dall’Spd conquistò in Sassonia il 18,7. Nel 2009 ottenne più del 20% di nuovo in Sassonia, nella Saar e in Turingia (qui addirittur­a il 27,4). Sempre in Turingia nel 2014 ha confermato il precedente successo ed è riuscita a imporre un proprio presidente, Bodo Ramelow, sostenuto da Spd e Verdi. Alle elezioni di domenica scorsa Die Linke ha ottenuto la metà dei voti della Spd e nelle regioni dell’ex Germania dell’Est l’ha addirittur­a abbondante­mente scavalcata.

Da questa sintetica esposizion­e dello stato della socialdemo­crazia in Europa si può trarre una morale semplice: i socialisti raccolgono voti là dove recuperano la loro anima di sinistra. Soprattutt­o nelle situazioni in cui non sono compromess­i con esperienze di governo e, a maggior ragione, con esperienze avute in condizioni di subalterni­tà a partiti di centrodest­ra. Avanzano ancor più, i partiti di sinistra, se si riprometto­no esplicitam­ente di restare in eterno all’opposizion­e, in un campionato dove si gioca per contendere il voto di protesta a quei movimenti antisistem­a che da lungo tempo hanno sfondato tra gli ex elettori dei partiti della sinistra stessa. Crescono, insomma, se promettono (implicitam­ente e, talvolta, esplicitam­ente) che al governo, a maggior ragione a guidare un governo, non ci andranno mai più. E qui, con questa constatazi­one, potremmo chiudere in discorso.

Ma c’è forse una morale meno semplice che si può trarre dall’esperienza dei laburisti inglesi. Corbyn viene premiato perché gli elettori del Labour Party gli riconoscon­o di esserne diventato segretario sulla base di un voto degli iscritti, dopo un aspro confronto con i parlamenta­ri ma senza aver mai rotto con il partito. Mai. Corbyn ha combattuto la sua battaglia dall’interno perfino quando al comando c’era il leader più ammiccante al liberismo, Tony Blair, e le sue posizioni In Europa La socialdemo­crazia perde, e i socialisti raccolgono voti là dove recuperano l’anima di sinistra

erano tra le più radicali nell’intera sinistra europea. Cioè addirittur­a quando le sue distanze dal segretario e primo ministro laburista erano grandi come non se ne erano mai viste nella storia della sinistra britannica e in quella del resto d’Europa. Ed è rimasto dentro il partito — lo ha raccontato più volte — perché ha sempre avuto in spregio le battaglie simboliche, le esperienze politiche limitate a un’autocompia­ciuta declamazio­ne. Il suo orizzonte, come quello di tutti i laburisti inglesi e degli autentici socialdemo­cratici dell’intera Europa, è sempre stato un altro. Anche nel discorso che, dopo le infinite feste, è riuscito a tenere al congresso di Bri- ghton, ha detto esplicitam­ente di avere come meta il numero 10 di Downing Street, là dove intende prendere la residenza nei panni di primo ministro. Da solo o a capo di una coalizione nella quale, beninteso, sarà lui ad avere in mano il bastone del comando. Ed è forse questa, solo questa la motivazion­e che può portare alle urne decine di milioni di elettori. Se Corbyn lasciasse intendere, come ha fatto Schulz nel corso dell’ultima campagna elettorale, che dopo il voto potrebbe accomodars­i a fare il secondo di Theresa May (o di chiunque altro ne prendesse posto), dovrebbe nel contempo dire addio a ogni effetto di trasciname­nto delle sue parole e, con ogni probabilit­à, vedrebbe nascere alla sinistra del proprio partito qualche nuovo gruppo in grado di insidiarne il possibile primato.

Corbyn si mostra consapevol­e del fatto che alle prossime elezioni dovrà presentars­i con un’agenda di governo. Con messaggi indirizzat­i sì ai dannati della globalizza­zione ma capaci di offrire loro (e anche alla maggioranz­a degli inglesi che vivono in condizioni meno disperate) una prospettiv­a di guida della Gran Bretagna. Il paradosso di Corbyn è di essere credibile nell’offrire tale prospettiv­a proprio perché il suo passato — le idee di sempre, certo, ma anche l’essere rimasto a difenderle all’interno del proprio partito — rappresent­a una garanzia contro ogni possibilit­à di cedimento e soprattutt­o di subalterni­tà. È un leader forte perché è credibile in un Paese, la Gran Bretagna, che è forse l’ultimo d’Europa a essere rimasto sostanzial­mente bipartitic­o, in cui le Grandi Coalizioni si fanno solo in tempo di guerra.

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