«Studiare e disinibire il palato per poter raccontare la cucina»
IL DIBATTITO
Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul tema del foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì pubblichiamo il contributo di foodwriter italiani e stranieri che ci spiegano on faccio altro che incontrare persone che vorrebbero mollare il proprio lavoro per fare il mestiere che faccio io. Ciò mi lusinga, ma alle volte credo che si sia generato un enorme malinteso secondo il quale il mestiere del foodwriter è visto come una specie di Paese dei Balocchi in cui non c’è fatica ed è tutto rose e fiori (magari edibili). Ma dato che il cibo rappresenta la base più intima dell’esperienza umana, il mangiare, è necessario maneggiare il suo racconto con cura e professionalità. Il cibo è il più antico e attuale dei social network: niente come una tavola apparecchiata sa innescare relazioni. È un linguaggio universale che non ha bisogno di traduzioni, un modo per entrare in contatto con se stessi e con gli altri. Se poi si alza lo sguardo dal nostro quotidiano, è facile accorgersi di come il cibo sia anche una questione economica, culturale, storica e politica che riguarda l’Umanità nel suo complesso. Dunque, scriverne richiede anche una certa preparazione e responsabilità.
Tra tutte le parole che potrei usare per descrivere il mio mestiere (straordinario, appagante, competitivo, divertente, stimolante, totalizzante), escluderei certamente l’aggettivo «facile» o «banale». Per prima cosa bisogna studiare moltissimo. Ogni prodotto alimentare è un mondo a sé stante e in continua evoluzione. Non si finisce mai di imparare. E si deve essere disposti a viaggiare parecchio: partecipare ai congressi nazionali e internazionali, che cosa significa scrivere di cibo. Dopo Pollan, Hesser, Marchi, Wilson, Di Marco, Padovani, Tommasi, Attlee, Corradin, Ottaviano, Del Conte, Segrè e Sifton, proseguiamo con Liverani. provare ristoranti in giro per il mondo, visitare stabilimenti produttivi, piccoli negozi e supermercati, confrontarsi con i colleghi stranieri. Fare chilometri e chilometri perché le storie più interessanti si annidano — guarda caso — sempre nei posti più impensati.
Tocca poi mangiare di tutto e disinibire il palato, mica solo formaggi prelibati, crostacei polposi, caviale, ostriche e vini rari: devi ingoiare esperimenti mal riusciti, interiora di ogni genere, insetti, alghe, nauseabondi ortaggi fermentati. Devi sottoporti a menu degustazione lunghi quanto un volo per Dubai o provare le improbabili acrobazie culinarie di chef alla ricerca della propria identità. Occorre avere la voglia e lo spirito giusto per passare dalle stelle alle stalle, nel vero senso della parola: può capitare di cenare con Massimo Bottura all’«Osteria Francescana» e poi il mattino dopo visitare un allevamento di maiali.
Poi c’è la scrittura: mettere a punto il proprio stile, avere rispetto per il lettore, far circolare storie utili, sapere quando usare un tono leggero e quando no, con la consapevolezza di essere la voce di un settore saliente. Di questo dobbiamo essere coscienti noi che scriviamo ma pure gli editori che ospitano le rubriche sul cibo e i lettori che devono diventare sempre più esigenti.
Aggiungo che fare il foodwriter in Italia oggi ci consegna una responsabilità ulteriore. In questo momento abbiamo i ristoranti migliori al mondo, i prodotti più buoni, i produttori più bravi e lettori informati. Noi dobbiamo lavorare all’altezza ed essere i foodwriter migliori del mondo. È una sfida straordinaria che abbiamo l’obbligo di cogliere con inesauribile voglia di conoscenza e voglia di raccontare. Così come uno chef passa migliaia di ore a mettere a punto un grande piatto o un produttore spende una vita intera dietro al raggiungimento della qualità, anche noi che di cibo scriviamo dobbiamo avere in mente che senza passione e sacrificio non si ottiene mai nulla di buono.
@martinaliverani