LA MODERNITÀ CLASSICA DI PERRET
Poiché il decreto di Francesco I di Francia è del 1517, Le Havre, la prima città della Normandia, compie e festeggia quest’anno i suoi cinquecento anni di vita. Al di là delle celebrazioni, credo che il vero protagonista della ricostruzione di Le Havre, dopo i bombardamenti del 1944, possa essere considerato lo studio del grande architetto Auguste Perret (1874-1954) e dei suoi due fratelli, che ne hanno fatto uno degli importanti monumenti dell’architettura moderna. Nell’estate del 1947 ero a Parigi per qualche mese alla scoperta di un mondo nuovo per un piccolo provinciale italiano. «Vuoi farti una settimana da Perret ?», mi chiede un giovane pianista polacco compagno di stanza alla Cité universitarie. Lo studio di Perret, in rue Rayuonard, a due passi dall’antico edificio di 25 bis rue Franklin con le decorazioni di Maurice Denis, era uno stanzone con lunghi banchi in legno. Di fronte, dietro una specie di cattedra sopraelevata, erano allineati i fratelli Perret: Auguste, Gustave e Claude. Due solitamente, perché nella mia settimana di lavoro il grande Auguste è comparso, elegantissimo, solo una volta. Perret, comunque, ancora negli anni Quaranta regnava sopra ogni cosa, erede della tradizione costruttiva di Emmanuel Viollet-le-Duc, del cemento armato di De Baudot e Julien Gaudet. E, più da lontano, del razionalismo di Durand, iniziatore della riconciliazione tra la modernità del cemento armato e la tradizione classica di fronte al razionalismo positivista. La lezione di Auguste Choisy è la stretta strada di connessione con Le Corbusier, che aveva fatto parte dello studio di Perret nel 1908, due anni prima del progetto del teatro dei Champs Elysées.
Nel 1947 era già cominciata la ricostruzione di Le Havre e di Amiens. Quanto deve la solidità urbana di Perret al grande Tony Garnier? E quanto, invece, di questo è stato dimenticato nel ventennio dell’intelligente (almeno nelle intenzioni) politica delle villes nouvelles (per non parlare dell’oggi)? Se in questa occasione volessi toccare il senso profondo dell’opera di Perret, non sarebbe sufficiente parlare dell’architetto del cemento armato e della sincerità costruttiva, anche se, certo, questo è l’insegnamento che egli ha tramandato alla generazione successiva. Dovremo ripensare anche ai termini in cui essa stessa si pone: all’aspirazione classicista di tutta una cultura francese del primo quarto di secolo. Da Valéry a Bourdelle, da Maurice Denis allo stesso Gide.
È la religione del laico, del progresso e della ragione, la tensione verso una irraggiungibile obiettività. Una cultura (perduta fin che si vuole) degli aspetti più tormentosi ed attuali del mondo moderno, ma che ebbe in quegli anni una propria autenticità, una continuità rispetto alle aspirazioni culturali di una società. Negare valore al momento classicista dell’opera di Perret, considerarlo contraddittorio rispetto al suo insegnamento metodologico significa chiudere gli occhi di fronte a una gran parte della sua architettura. Compito della critica sarebbe, semmai, ricercare le ragioni e le qualità storiche del suo classicismo. Ossia perché, e in che modo, Perret attui la sua ricerca di «norme obiettive» attraverso un quotidiano esercizio di ragione. E come, mediante la costruzione di diversi oggetti architettonici, Perret fissi alcuni principi, li affini, li metta a fuoco sempre più sottilmente, sempre più rigorosamente. Sarà chiaro così come egli abbia potuto costruire non solo il garage di Rue Ponthieu, ma anche una città come Le Havre.
Questo il suo insegnamento, certamente più importante rispetto a quello delle archistar contemporanee.