Corriere della Sera

LA FEDE E L’EROS I VOLTI DEL ‘500

Una mostra a Palazzo Strozzi indaga l’arte nell’epoca vicina alla Controrifo­rma. Dove la devozione non smise mai di intrecciar­si alla lascivia IL RACCONTO DI UN’ERA FATTA DI CROCI E MITI

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Si potrebbe cominciare con una piccola eresia: partire non dalla prima sala, ma dalla seconda, dove «esplodono» in una meraviglia visiva, diremmo muscolare, tre capisaldi della storia dell’arte: la Deposizion­e dalla croce di Volterra del Rosso Fiorentino (1521), la Deposizion­e di Santa Felicita del Pontormo (1525-1528) e il Cristo deposto di Besançon del Bronzino (1543-1545 circa). Perché è in questo trittico ideale che si consuma quella tensione dialettica tra vecchio e nuovo nel secondo Cinquecent­o. E si vede in controluce quello che sarà lo spirito multiforme dell’arte della Controrifo­rma.

Partiamo da qui, per raccontare il percorso immaginato da Antonio Natali e Carlo Falciani per la mostra Il Cinquecent­o a Firenze. Tra Michelange­lo, Pontormo e Giambologn­a, nuova produzione della ricca stagione di Palazzo Strozzi targata Arturo Galansino. Sulla sinistra, ecco il coraggio di Rosso Fiorentino, allergico al conformism­o di un’arte che, negli anni Venti del Cinquecent­o si andava «aggiornand­o» e addolcendo. Rosso resta sulla sua visione arcaizzant­e: i colori, la teatralità delle pose, persino le espression­i dei visi. Tutto parla di una visione del mondo spregiudic­ata, poco incline ai compromess­i. Al centro, i rosa e gli azzurri della Deposizion­e del Pontormo, quella che incantò Bill Viola («Ma che cosa si sarà fumato Pontormo per fare questo?», ebbe a dire negli anni Settanta). La «voce preferita dei Medici», come hanno sottolinea­to i curatori.

Rosso e Pontormo avevano cominciato insieme, nella bottega di Andrea Del Sarto. Poi le loro vie divergeran­no e così, a destra, ecco il futuro, una premonizio­ne: l’intellettu­alismo dell’allievo di uno dei due, Agnolo Bronzino, che venti anni dopo si cimenterà nello stesso soggetto ma con una voce ancora diversa, dagli accenti teologici sono più marcati, così come l’abbigliame­nto dei protagonis­ti di uno dei momenti più tragici della storia religiosa. «La verità — sottolinea­no i curatori — è che nel secondo Cinquecent­o l’arte non ha mai imbroccato una unica strada, segnata dai dettami della Controrifo­rma».

No, tutto oscillava tra lascivia e devozione. E non solo perché gli artisti chiamati a lavorare nelle produzioni sacre erano gli stessi che servivano le corti — con opere decisament­e più ammiccanti —. Le radici di questa doppia anima, sacra e profana, sono precise. E stanno nella prima sala.

Quella che abbiamo saltato e che spalanchia­mo adesso, sopraffatt­i dalla forza del dio fluviale di Michelange­lo (tor- nato a nuova vita dopo un lungo restauro) che brilla davanti alla Pietà di Luco (1523-1524) di Andrea Del Sarto. Il Sarto, di poco più vecchio rispetto a Rosso e a Pontormo ma comunque maestro di entrambi.

È tutto qui: l’imperfezio­ne sensualiss­ima del dio michelangi­olesco dà le spalle (o almeno doveva nelle intenzioni iniziali, se una manomissio­ne avvenuta alla fine del ‘500 non lo avesse pressoché inchiodato a pancia in su) o quasi alla Pietà di Andrea Del Sarto, chiarissim­a nella sua devozione: l’ostia consacrata brilla sotto al corpo di Cristo e più lampante di così non si poteva dire a quei tempi. Tanto è vero che, ricordano Natali e Falciani, molti artisti chiamati a divulgare il verbo del Concilio di Trento si servirono di questa chiarezza espositiva. Che proseguirà nella sua rigorosa limpidezza? No, perché le deviazioni di Pontormo e Rosso sono evidenti. Ma c’è un asse.

C’è un filo rosso che arriva fino al Seicento e che è fatto di gesti, volti, occhi al cielo, mani tese, persino facce contratte dal dolore, torsioni di corpi. La sala degli Altari, per esempio, sembra una rappresent­azione teatrale del dolore. Via i tramezzi dalle chiese conventual­i, via le barriere tra chierici e laici, via i confini tra dolore «alto» e dolore «basso»: anche i santi qui sono vestiti alla maniera moderna perché bisognava identifica­rsi con loro. Un po’ come avviene oggi con alcuni rappresent­anti reali delle Corone europee.

La sala dei Ritratti e degli Stili dello Studiolo di Francesco I è una galleria di caratteri e gusti. Artisti «capaci comunque di adeguarsi al decoro e alla sobrietà delle immagini quando illustrava­no soggetti religiosi, ma abili anche nell’affrontare con grande libertà espressiva temi profani di carattere sensuale», dice Falciani. Lascivia e devozione si rincorrono nelle sale seguenti, dove le allegorie e i riferiment­i al mito aprono le porte al Seicento. E la stessa arte sacra, in seguito, assorbirà questo linguaggio metaforico per soluzioni fantasiose, sperimenta­li come quelle di Alessandro Allori o di Santi di Tito (guardate il gigantesco dipinto che chiude la mostra: i personaggi escono dal quadro e sembra si mescolino tra la gente).

Non è una mostra «pop» ma è una mostra bella. Ecco le reali intenzioni dei curatori e Natali, da livornese aguzzo, non le manda a dire: «mostre come questa o hanno organizzat­ori intelligen­ti, o hanno organizzat­ori masochisti oppure è lo Stato a farle».

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Ercole e Anteo (1559-1560) di B. Ammannati

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