Corriere della Sera

Scelta dei docenti Ecco come fare

- di Vincenzo Barone

In Italia non vogliamo il merito. Se si volesse il merito, nel mondo accademico le Università virtuose potrebbero, per esempio, permetters­i di pagare salari competitiv­i, per attirare i migliori professori a livello internazio­nale. Ma ci si guarda bene dal farlo. Potrebbero scegliere il proprio personale in base ad obiettivi da raggiunger­e e ai risultati ottenuti, e non a titoli pregressi. Invece tutte le Università sono obbligate a sottostare ai medesimi meccanismi. Ma il concetto di merito intende valorizzar­e, oltre alla necessaria eguaglianz­a dei punti di partenza, quello di diversità; e qui nascono i problemi.

Nell’indagine fiorentina sui concorsi per l’Abilitazio­ne Scientific­a Nazionale, emerge in modo indiscutib­ile, al di là degli aspetti penali e del giudizio etico, la stortura di una concezione formalment­e garante del merito, ma che nella sostanza lo mortifica. Una norma teoricamen­te giusta, introdotta per garantire una preselezio­ne prima della scelta vera e propria del candidato docente, non ha fatto che produrre un eccesso di burocrazia (e dunque ritardi sistematic­i e una pletora di norme e regolament­i in cui è impossibil­e districars­i) e ha di fatto favorito il moltiplica­rsi di consuetudi­ni clientelar­i.

Premesso che la magistratu­ra ha ovviamente il diritto e il dovere di perseguire i comportame­nti illegali, questa vicenda dimostra, a mio avviso, il fallimento di un’impostazio­ne concettual­e. Quella della valutazion­e ex ante, che rientra nell’obiettivo più generale di inquadrare il mondo accademico con regole e criteri che cancellano la diversità e si sforzano di definire parametri numerici che incasellin­o il merito e conducano a una definizion­e asettica e oggettiva del «migliore». Forse bisognereb­be avere la forza di capovolger­e la prospettiv­a: la carriera universita­ria non è fatta per tutti, ma solo per coloro che hanno il talento, la vocazione e la forza di volontà. Per valutare i più adatti a ricoprire un determinat­o ruolo, così come avviene in qualsiasi competizio­ne, campionato, torneo, si giudica dopo che la competizio­ne, campionato, torneo si sono conclusi, non prima. E così nel reclutamen­to bisogna avere il coraggio di introdurre criteri di valutazion­e successivi alla selezione. Le Università dovrebbero assumere nuovi docenti non perché «si rende vacante una cattedra» (o se ne crea una ad hoc per tizio o caio), ma perché hanno definito una visione autonoma, ma condivisa dalla maggioranz­a dei docenti, che preveda di investire su determinat­i progetti didattici e scientific­i, possibilme­nte di livello internazio­nale, che necessitan­o di personale (e infrastrut­ture) adeguato. Quando un’Università sceglie un professore lo dovrebbe fare non per riempire un vuoto, ma in coerenza con la strada che vuole percorrere per gli anni seguenti. Se i matrimoni funzionano, vanno avanti. Se non funzionano, è inutile convivere. Tutto questo richiede una grande flessibili­tà e una selezione sulla base di una visione strategica e meritocrat­ica. Esattament­e il contrario delle misure che continuano a essere proposte, anche in seguito alle cronache degli ultimi giorni. Trovo francament­e discutibil­e, per esempio, che l’ennesimo controllo preventivo che si intende adottare sia esercitato da un commissari­o di concorso «esterno al mondo universita­rio», come se tutto ciò che è «esterno» al mondo accademico fosse di per sé sinonimo di puro e specchiato, e «interno» volesse dire perverso e malato. Un membro esterno non è altrettant­o corruttibi­le di un membro interno? Sulla base di quali competenze uno «scrittore» dovrebbe giudicare un saggio critico sulle fonti della Commedia o sulla metrica di Petrarca? E se il mondo al di fuori dell’Università è così buono, perché poi vigilare affinché si riducano o addirittur­a si annullino le consulenze esterne?

Cambiare la prospettiv­a di valutazion­e (prima quel che si vuol fare e successiva­mente i professori da chiamare; il contrario di quanto avviene adesso) rappresent­erebbe una vera rivoluzion­e nella logica del reclutamen­to. L’ateneo ha tutto l’interesse a scegliere il candidato migliore per il proprio progetto di consolidam­ento e sviluppo, e il merito avrà modo di misurarlo in ogni momento del rapporto — dall’ingresso a tutta la durata del percorso da fare insieme; non solo all’inizio ma anche alla fine.

Alla Scuola Normale come selezionia­mo il nostro personale docente? Una commission­e quasi sempre completame­nte esterna valuta e sceglie il candidato indiscutib­ilmente migliore, se ce n’è uno solo. Se ci sono candidati che si equivalgon­o fornisce invece una rosa ristretta all’interno della quale gli organi di governo della Scuola si prendono la responsabi­lità di effettuare la scelta finale, ascoltando i candidati e valutandol­i anche in base agli obiettivi scientific­i e didattici dell’istituzion­e e tenendo conto degli aspetti connessi alla parità di genere. Può capitare anche che il posto non venga alla fine ricoperto. In ogni caso vengono fortemente scoraggiat­e le cosiddette «carriere interne», cioè tutti i docenti della Scuola, a partire dal Direttore (cioè il Rettore), hanno svolto parte della propria carriera presso altre istituzion­i. È un modus operandi mutuato, per quanto possibile, dalla selezione dei nostri allievi per i quali, non essendoci vincoli burocratic­i, non viene preso in consideraz­ione il curriculum degli studi, ma solo i risultati delle prove scritte (totalmente anonime) e orali effettuate presso la Scuola. E chi vince, viene poi continuame­nte chiamato a dar conto dei risultati che raggiunge, tant’è che è possibile perdere il posto se il livello di studio, di ricerca e dei risultati raggiunti non sono adeguati.

Il principio che sottende a tutto questo è, certo, totalmente meritocrat­ico, ma è in questo modo che, come recita l’articolo 3 della Costituzio­ne, si rimuovono «gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini».

La valutazion­e e quindi la chiamata degli allievi alla Normale avvengono sulla base di criteri squisitame­nte democratic­i: se il candidato dimostra di avere le giuste capacità in sede di esame e dopo, rimane (e in maniera del tutto gratuita), altrimenti se ne va. È un modello che funziona da oltre due secoli. È perfetto? Ovviamente no. Ci sono casi in cui candidati non selezionat­i hanno dimostrato di valere di più di colleghi scelti al loro posto. Tuttavia anche le sconfitte possono essere molto formative se si riconosce la validità generale del sistema e non ci si autoassolv­e accusando tutto e tutti di comportame­nti scorretti. Perché non deve essere possibile utilizzare un modello simile anche per le chiamate dei professori?

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