Corriere della Sera

Terapie in cella e controlli medici dopo la scarcerazi­one Come impedire che colpiscano ancora

IL DOSSIER I CONDANNATI E I RECIDIVI

- Di Luigi Ferrarella

I l problema è «scongelarl­i». Nel senso che alcuni degli autori di reati sessuali li si può anche tenere in carcere 5, 10, 15 anni, ma poi all’uscita — se in carcere sono stati soltanto rinchiusi — spesso torneranno a commettere quei reati: e i criminolog­i dell’equipe di Paolo Giulini, che dal 2005 conduce nel carcere milanese di Bollate uno dei pochissimi esperiment­i italiani di specifico trattament­o terapeutic­o dei cosiddetti sex offenders, parlano proprio di «ibernazion­e penitenzia­ria» perché questi condannati, «se quando entrano in carcere non vengono trattati, non prendono coscienza del reato commesso, restano congelati, e quando escono riproducon­o quei meccanismi psicopatol­ogici che sono alla base dei loro atti» di stupro, molestie, pedopornog­rafia.

La scelta della Francia

L’ordinario supporto riabilitat­ivo che il carcere offre già poco o per nulla ai detenuti ordinari, magari con un solo psicologo per centinaia di detenuti, a maggior ragione non incide su individui spesso connotati da disturbi della personalit­à, incapaci di mettersi nei panni degli altri e percepirne la sofferenza inflitta, o essi stessi abusati da piccoli in un caso su cinque. Ci sono Paesi, come la Francia, dove dal ’98 il giudice, dopo l’espiazione della pena, impone all’autore di reati sessuali di seguire un periodo (da 2 a 5 anni) di «controllo medico-socio-giudiziari­o»: se non vi si sottopone, scatta un reato autonomo che determina un’altra condanna.

Le sedute con i familiari

Dal 2005 Giulini, con il Centro italiano per la promozione della mediazione, e d’intesa con il Presidio criminolog­ico territoria­le del Comune di Milano, a Bollate prova invece far usare ai condannati il tempo della pena, anziché farlo solo scorrere in attesa del ritorno in libertà: in modo che quel tempo serva al detenuto — su base volontaria — per assumere la responsabi­lità, e prima ancora la coscienza, di ciò che ha fatto. Dopo tre mesi di osservazio­ne, il detenuto firma un contratto simbolico con l’équipe per impegnarsi a un anno di trattament­o, con quattro sedute settimanal­i, e una bisettiman­ale anche con i familiari.

È un lavoro complicato, per nulla scontato, a volte crudo (intuibile guardando le riprese del film «Un altro me» realizzato nel 2016 da Claudio Casazza e premiato alla 57esima edizione

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