«Così Bernstein mi ha sedotta con la purezza»
Confesso che quando mi hanno proposto di suonare la parte pianistica della seconda sinfonia di Bernstein non ho accettato subito, mi sono presa un po’ di tempo. Amo il jazz ma non l’ho mai suonato in pubblico, temevo di non risultare in sintonia con il linguaggio e lo spirito del brano; e l’unica esperienza pubblica con qualcosa di simile era stata il Concerto di Carlo Boccadoro eseguito in prima assoluta la scorsa stagione alla Scala, con la Filarmonica e Riccardo Chailly. Non era esattamente jazz ma una rilettura contemporanea del jazz, tecnicamente difficilissima. Così, quando ho iniziato a leggere la partitura di Bernstein ho tirato un sospiro di sollievo: è molto meno virtuosistica di quella di Boccadoro! E mi sono trovata subito a mio agio: Bernstein guarda al jazz dall’interno, è parte del suo dna, ma, oltre che compositore fu un grandissimo pianista e la sua scrittura lo evidenzia, la si ritrova sotto le dita. Non è come in tante opere contemporanee che ti spiazzano e quando volti la pagina non sai che cosa aspettarti, qui è facile immedesimarsi col pensiero dell’autore. Così se da un lato devo lavorare molto perché all’ascoltatore tante parti, pur annotate con precisione assoluta, suonino come improvvisate — il jazz si basa molto sull’improvvisazione — dall’altro mi sembrano echeggiare in queste note tanti momenti di concerti che ho suonato. In un passaggio mi sembrava talmente simile a Chopin che ho pensato di sbagliarmi, mi dicevo: «Beatrice sei fissata coi tuoi classici», ma alcuni musicisti con cui mi sono confrontata mi hanno detto di avere avuto la stessa sensazione. Dettaglio non trascurabile, non è un Concerto solistico ma una sinfonia: il pianoforte suona tanto, spesso emerge come nel bellissimo The Masque, ma deve anche sapersi integrare nel tessuto orchestrale. È un’opera per me nuova, diversa, e un’occasione per omaggiare Bernstein, un musicista che ho sempre adorato. (testo raccolto da Enrico Parola)