Corriere della Sera

«Unità nazionale contro gli scafisti e i terroristi»

Il ministro Minniti: ora l’Europa aiuti la Libia

- Di Aldo Cazzullo

Il ministro dell’Interno Minniti parla al Corriere dell’esigenza di una nuova solidariet­à nazionale contro terroristi e scafisti: «Sui grandi temi di fondo, un grande Paese non si divide. E ora l’Europa aiuti la Libia».

Ministro Minniti, ma lei è di sinistra o di destra?

«Mi sento profondame­nte di sinistra. Quand’ero ragazzo ho scelto un partito politico…».

Il Partito comunista italiano.

«…E non l’ho mai cambiato; ho contribuit­o a cambiarlo dall’interno. Con la rottura traumatica ma necessaria dell’89. E con la svolta di dieci anni fa. Se non avessi contribuit­o allora a far nascere il Pd di Veltroni, l’avrei fatto adesso. Perché il Pd nasce per rispondere alle grandi sfide del mondo globale, come l’immigrazio­ne e il terrorismo. Non è possibile leggere fenomeni così complessi se si ritorna all’identità precedente».

E gli scissionis­ti, quindi?

«Hanno commesso un gravissimo errore. Un grande democratic­o americano disse: “Un partito che si batte per i diritti delle minoranze non può essere minoritari­o; deve parlare alla maggioranz­a”».

Lei viene da una famiglia di destra?

«Vengo da una famiglia di militari. Mio padre ebbe otto fratelli: tutti e nove fecero i militari».

Combattero­no la Seconda guerra mondiale?

«Molti sì. Nell’aeronautic­a mio padre servì la patria in tutti i modi e i luoghi in cui poteva farlo: Dodecaneso, Spagna, Africa settentrio­nale, Russia; e, dopo l’8 settembre, con gli Alleati. Mio zio era nei diavoli rossi, la pattuglia acrobatica».

L’aeroporto della sua città è intitolato a Tito Minniti: asso dell’aviazione fascista, vero?

«Era anche lui di Reggio Calabria. Fu abbattuto in Africa orientale, decapitato, la testa portata in trionfo dalle truppe del Negus. È medaglia d’oro al valor militare».

Lei alla festa di Fratelli d’Italia ha un po’ strizzato l’occhio: la scrivania del Duce, la scrivania di Italo Balbo…

«Non ho strizzato l’occhio; ho raccontato la mia storia. Il testone mi ha sempre perseguita­to, l’avevo già a sei mesi. Persi i capelli a 19 anni: non sopportavo il cappellino, trovavo ridicolo il riporto; mi rasai a zero. Quando entrai a Palazzo Chigi come sottosegre­tario mi toccò la scrivania di Mussolini, da sottosegre­tario alla Difesa quella di Balbo, sul muro era scritto: “Chi vale vola, chi non vale non vola, chi vale e non vola è un vile”. Ma ai giovani di destra ho detto che non devono permettere al morto di afferrare il vivo. Mi viene in mente un verso di Catullo: “Povero Catullo, smettila di fare follie, e quel che è finito consideral­o finito per sempre”».

Ma in giro c’è parecchio neofascism­o, o no?

«Certo che c’è. Non ho timore di assumere posizioni nette, come quando ho detto alla Camera che una manifestaz­ione che si richiama alla marcia su Roma e al 28 ottobre per me non si può fare. Alla festa di Atreju c’è stato un confronto vero, anche duro. Quando ho sentito dire che il Pci era estraneo alla storia positiva del Paese, mi sono ribellato. E ho rivendicat­o la funzione nazionale del Pci negli anni di piombo».

Oggi qualcuno la accosta a Pecchioli, il contraltar­e comunista di Cossiga.

«Lasci stare, Pecchioli era un grande. L’essenziale fu che, quando qualcuno definì le Brigate rosse “compagni che sbagliano”, il Pci disse: chi spara non è un compagno. Questo ha consentito alla democrazia italiana di reggere la sfida del terrorismo interno. Di più: ha creato un modello italiano di lotta al terrorismo».

Anche per questo finora siamo stati al riparo dagli islamisti?

«Certo. Abbiamo un know-how. Sappiamo come fare. Ma la guardia deve restare sempre alta. E la profonda unità delle grandi forze politiche su questi temi dovrebbe essere un valore sentito da tutti».

Una nuova solidariet­à nazionale sul contrasto al terrorismo e al traffico di esseri umani?

«Sì. Sui grandi temi di fondo, un grande Paese non si divide. La mia scelta di metterci la faccia, senza entrare nel campo aperto della contrappos­izione politica, ha questo significat­o. Solo così si affronta il tema cruciale della società moderna».

Quale?

«La paura. Perché la paura non va esorcizzat­a. Non si può far finta che non esista. È un sentimento molto profondo, che a volte viene negato perché si prova disagio a confessarl­o; ma c’è. Se tu ti rapporti a un cittadino che ha paura dicendo di non capirlo, di biasimarlo, non lo aiuti. La cultura della sinistra riformista ci impone il contrario: dimostrare al cittadino che abbiamo percepito il suo sentimento; e lavorare per liberarlo dalla paura. Questo ci distingue dai populisti. Che vogliono tenere le persone incatenate alla paura».

Lei ha appena ricevuto il generale Haftar. Chi comanda in Libia? Lui o il premier Serraj?

«Se vogliamo fermare il traffico più inaccettab­ile che esista, il traffico di esseri umani, dobbiamo stabilizza­re la Libia. I trafficant­i hanno bisogno di istituzion­i deboli, di sovranità sfumata, di controllo del territorio. Noi abbiamo sviluppato un rapporto molto forte con il governo riconosciu­to dalla comunità internazio­nale: il governo Serraj».

Perché incontrare Haftar allora?

«Era giusto fare un passo anche verso di lui, in un percorso di riconcilia­zione nazionale. Dobbiamo essere riconoscen­ti per quanto hanno fatto i libici contro lo Stato islamico: per liberare Sirte i giovani di Misurata hanno avuto 500 caduti. La comunità internazio­nale, Italia compresa, ha un debito verso la Libia, perché siamo intervenut­i contro Gheddafi senza avere un piano per la ricostruzi­one del Paese. Che per noi è strategico: per i flussi demografic­i; per l’energia; per il contrasto al terrorismo».

Ci sono terroristi in Libia, che potrebbero imbarcarsi per l’Italia?

«Ci possono essere. La situazione è attentamen­te monitorata. Per l’Isis hanno combattuto 30 mila foreign fighters: la più grande legione straniera della storia. Ora che l’Isis viene sconfitto, i legionari tornano a casa, a piccoli gruppi o individual­mente. E qualcuno potrebbe tentare la sorte lungo la rotta dei flussi migratori».

Un grande inviato di guerra del «Corriere», Lorenzo Cremonesi, ha raccolto testimonia­nze secondo cui il governo italiano avrebbe pagato trafficant­i per fermare gli sbarchi. La notizia è stata ripresa all’estero, «Le Monde» ci ha aperto il giornale. Cosa risponde?

«Ho già smentito».

Una smentita di rito.

«Una smentita vera. Noi abbiamo investito in Libia, in Africa. Ma sulla legalità; non sull’illegalità».

A quali investimen­ti si riferisce?

«Stiamo formando gli equipaggi della Guardia costiera, abbiamo risistemat­o e restituito quattro motovedett­e, altre sei le daremo a fine anno: in nove mesi i libici hanno salvato e portato indietro 16.500 persone. I capi dei Tuareg, dei Tebu e dei Suleiman, le tribù guardiane del deserto, sono venuti qui a Roma a firmare la pace dopo anni di guerre. Un sultano mi ha detto: “Fate sì che i nostri figli non siano costretti a fare i trafficant­i”. La Libia è vittima del traffico, proprio come l’Italia. Perché nessun Paese può reggere a lungo prosperand­o su un mercato di esseri umani».

Qual è l’alternativ­a?

«Riconverti­re l’economia libica: voi vi impegnate a sganciarvi dai trafficant­i, e noi vi aiutiamo a costruire il futuro. Una scommessa che i sindaci delle 14 principali città hanno accettato. Sono venuti con le slide, per illustrare il loro piano di sviluppo: la tac per gli ospedali, il parco per i bambini; ma al primo punto tutti hanno messo l’assistenza ai migranti. E noi abbiamo coinvolto l’Europa. Per chiudere la rotta balcanica l’Europa ha dato tre miliardi alla Turchia, con la promessa di altri tre; ora deve aiutare anche la Libia».

Qual è la sorte dei migranti nei campi? Testimonia­nze inoppugnab­ili parlano di violazione dei diritti umani, stupri, assassini.

«Per noi è un impegno assoluto: non possiamo e non vogliamo voltarci dall’altra parte. È inaccettab­ile che si riproducan­o le condizioni dei tempi di Gheddafi. Ma ora l’Oim, l’Organizzaz­ione internazio­nale per le migrazioni, è tornata in Libia. E vi ha messo piede l’Unhcr, l’Organizzaz­ione Onu per i rifugiati. Ci sono le Ong. E c’è l’impegno diretto dell’Italia: viveri, medicinali. L’Unhcr ha visitato 27 campi su 29. Ha individuat­o mille tra donne, bambini e anziani che verranno accolti in Europa».

Una goccia nel mare. C’è stato un voltafacci­a dell’Italia, dall’accoglienz­a ai respingime­nti?

«L’accoglienz­a ha un limite nella capacità di integrazio­ne. Un giovane del Sahara che si mette in viaggio verso Nord è mosso dalla radicale speranza di una vita migliore. Se si rovescia in una radicale disillusio­ne, la sua forza costruttiv­a diventa una forza distruttiv­a verso la società che l’ha disilluso. Si arriverà in Italia legalmente, tramite le ambasciate, le richieste, i visti; ma tutto questo sarà possibile se sconfigger­emo l’immigrazio­ne illegale».

E i migranti bloccati nel deserto? Che ne è di loro?

«L’Oim è anche nel deserto, ha cominciato i rimpatri assistiti, ne ha già fatti 7.300. Abbiamo realizzato una cabina di regia con Niger, Ciad, Mali, costruendo un rapporto diretto con tre Paesi da sempre nell’orbita francese. Si deve affermare l’idea che il confine Sud della Libia è il confine dell’Europa. E si sta affermando: gli ingressi sono diminuiti del 35%. Non è un fatto casuale; abbiamo una visione, una strategia. Può essere criticata, presentata come un libro dei sogni; ma c’è. L’immigrazio­ne dev’essere separata dall’emergenza. L’emergenza è l’approccio caro ai populisti, perché crea allarme e paura».

D’Alema la accusa: «Minniti dice di essere tormentato. Ma lui è ministro: dovrebbe agire per mettere riparo alle conseguenz­e delle sue decisioni».

«Mi pare che in queste due ore di conversazi­one abbiamo dato una risposta esaustiva a D’Alema».

Non ho strizzato l’occhio a Fratelli d’Italia Il testone mi ha sempre perseguita­to, quando entrai a Palazzo Chigi mi toccò la scrivania di Mussolini e alla Difesa quella di Balbo

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Al Viminale Marco Minniti, 61 anni, calabrese, è ministro degli Interni dal 12 dicembre dello scorso anno. Di scuola comunista, nella sua carriera politica ha ricoperto diversi incarichi nel Pds, nei Ds e nel Pd. Più volte deputato, è stato...

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