Corriere della Sera

Quando l’oblio non è un diritto

Lettera del legale del killer al sito contro i femminicid­i

- Di Gian Antonio Stella

Che scadenza ha la memoria d’un delitto? Sappiamo quella dello yogurt, dei pandori o del tonno ma qual è la scadenza del ricordo di una morta? Mai, per chi l’amava. Mai. Eppure l’avvocato d’un omicida chiede di rimuovere dal sito dedicato ai femminicid­i ogni accenno al suo cliente. Ce l’avrà bene il diritto alla privacy! In fondo, son passati «ben più di cinque anni»…

Per carità, non a tutti è dato di provare quanto provò, racconta Alessandro Manzoni, «il nostro Lodovico», che dopo avere ammazzato in un duello «un tale, arrogante e soverchiat­ore», fu preso da un tale turbamento da indossare il saio col nome di fra’ Cristoforo per seguire «una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerab­ile del rimorso». Anzi, troppe storie di femminicid­i han mostrato come non pochi massacrato­ri di fidanzate, mogli, compagne, conservino il loro odio perfino «dopo».

Fatto sta che Emanuela Valente, la giornalist­a e blogger che ha creato e coltiva «inquantodo­nna.it» per tenere viva la memoria di tutte le poverette che sono state uccise, ha ricevuto recentemen­te una lettera che l’ha lasciata basita. La firma l’avvocato Germana Cauci. E dice tutto già nell’oggetto: «Cancellazi­one da ogni sito Web delle notizie e informazio­ni riguardant­i la persona di Cristian Vasili Lepsa».

Ricordate? Si tratta di quel muratore rumeno che alla fine di febbraio del 2011 ammazzò con un pugno in faccia, una martellata terrifican­te, Elena Catalina Tanasa. La quale, minacciata dall’uomo, aveva inutilment­e cercato di rifugiarsi a casa di due amici. L’uomo, «conosciuto dagli amici come un tipo violento e con precedenti», scrisse l’Ansa, «l’aveva inseguita fin dentro La pena e la Cassazione Condannato a 30 anni in primo grado e in appello, la Cassazione nel 2014 ha ridotto la pena a 17 anni

l’appartamen­to arrampican­dosi su un albero, aveva fatto irruzione da una finestra e aveva colpito la giovane». La quale, finita in coma, non riuscì a riprenders­i e dopo ore di agonia morì.

Al processo, come ricorda il difensore della ragazza Moreno Maresi, emerse un quadro piuttosto chiaro. Da una parte c’era lui, Cristian, un ex militare violento che passava ore nelle palestre di body building per farsi un fisico scultoreo. Dall’altra lei, Elena, ricordata dalle amiche come «una ragazza bella, dolcissima, piccolina, fragile, che lavorava e studiava per andare all’università». Un pugno di Cristian era in grado di fare i danni di un’incudine scaraventa­ta su una vetrinetta. I giudici, infatti, non ebbero dubbi: omicidio volontario. E così quelli d’appello: omicidio volontario. Trent’anni di carcere. Tanto più che il delitto era stato preceduto, dissero le sentenze, da «una serie di delitti» consistent­i in «maltrattam­enti e lesioni» alla ragazza. Massimo della pena.

Cristian Vasili Lepsa, però, non si arrende. E ricorre in Cassazione dicendo d’aver colpito la vittima per errore perché si era messa in mezzo a una rissa tra lui e il presunto rivale e lamentando il «mancato espletamen­to di perizia psichiatri­ca (…) essendo i fatti espression­e di una gelosia patologica e abnorme, tale da escludere o comunque scemare grandement­e la capacità di intendere e volere». Un raptus. Solo un raptus: aveva pure lasciato a casa la mazza da baseball…

E che fa la Suprema Corte? Gli dà ragione: non era un omicidio volontario ma preterinte­nzionale… Anzi, non manca una bacchettat­a ai giudici d’appello: non hanno operato «il necessario discrimine tra la gelosia che, in se stessa, ancorché morbosa, non costituisc­e un futile motivo, bensì uno stato emotivo e passionale, e la consideraz­ione della vittima come proprio possesso…». Pena ridotta: 17 anni. È il 9 settembre 2014.

Nemmeno tre anni dopo, senza che mai la notizia della riduzione di pena sia uscita manco sulla dettagliat­issima Ansa regionale, l’avvocato intima a «inquantodo­nna.it» di correggere l’imprecisio­ne sull’omicidio «volontario». E fin qui, va bene.

Ma non basta: «Vi intimo entro cinque giorni e non oltre a rimuovere ogni informazio­ne in merito al mio assistito poiché detto articolo risulta non più necessario» dato che «la notizia all’epoca ha raggiunto l’utenza nell’espression­e del pieno diritto di cronaca». Perché insistere a ricordare quello spiacevole episodio che «ha visto coinvolto il mio assistito ben più di cinque anni fa»? Sic… Insomma, e la privacy?

L’Authority ha già risposto: certo, l’interessat­o ha il diritto di richiedere che i suoi dati vengano aggiornati ma, «al di là del caso specifico, le decisioni adottate dal Garante per accogliere o respingere le richieste di diritto all’oblio si basano su alcuni criteri guida: il trascorrer­e del tempo è senz’altro l’elemento più importante, ma l’esercizio di un tale diritto può incontrare rilevanti limiti…». Pochi anni bastano per chiedere l’oblio su un omicida?

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