Quando l’oblio non è un diritto
Lettera del legale del killer al sito contro i femminicidi
Che scadenza ha la memoria d’un delitto? Sappiamo quella dello yogurt, dei pandori o del tonno ma qual è la scadenza del ricordo di una morta? Mai, per chi l’amava. Mai. Eppure l’avvocato d’un omicida chiede di rimuovere dal sito dedicato ai femminicidi ogni accenno al suo cliente. Ce l’avrà bene il diritto alla privacy! In fondo, son passati «ben più di cinque anni»…
Per carità, non a tutti è dato di provare quanto provò, racconta Alessandro Manzoni, «il nostro Lodovico», che dopo avere ammazzato in un duello «un tale, arrogante e soverchiatore», fu preso da un tale turbamento da indossare il saio col nome di fra’ Cristoforo per seguire «una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso». Anzi, troppe storie di femminicidi han mostrato come non pochi massacratori di fidanzate, mogli, compagne, conservino il loro odio perfino «dopo».
Fatto sta che Emanuela Valente, la giornalista e blogger che ha creato e coltiva «inquantodonna.it» per tenere viva la memoria di tutte le poverette che sono state uccise, ha ricevuto recentemente una lettera che l’ha lasciata basita. La firma l’avvocato Germana Cauci. E dice tutto già nell’oggetto: «Cancellazione da ogni sito Web delle notizie e informazioni riguardanti la persona di Cristian Vasili Lepsa».
Ricordate? Si tratta di quel muratore rumeno che alla fine di febbraio del 2011 ammazzò con un pugno in faccia, una martellata terrificante, Elena Catalina Tanasa. La quale, minacciata dall’uomo, aveva inutilmente cercato di rifugiarsi a casa di due amici. L’uomo, «conosciuto dagli amici come un tipo violento e con precedenti», scrisse l’Ansa, «l’aveva inseguita fin dentro La pena e la Cassazione Condannato a 30 anni in primo grado e in appello, la Cassazione nel 2014 ha ridotto la pena a 17 anni
l’appartamento arrampicandosi su un albero, aveva fatto irruzione da una finestra e aveva colpito la giovane». La quale, finita in coma, non riuscì a riprendersi e dopo ore di agonia morì.
Al processo, come ricorda il difensore della ragazza Moreno Maresi, emerse un quadro piuttosto chiaro. Da una parte c’era lui, Cristian, un ex militare violento che passava ore nelle palestre di body building per farsi un fisico scultoreo. Dall’altra lei, Elena, ricordata dalle amiche come «una ragazza bella, dolcissima, piccolina, fragile, che lavorava e studiava per andare all’università». Un pugno di Cristian era in grado di fare i danni di un’incudine scaraventata su una vetrinetta. I giudici, infatti, non ebbero dubbi: omicidio volontario. E così quelli d’appello: omicidio volontario. Trent’anni di carcere. Tanto più che il delitto era stato preceduto, dissero le sentenze, da «una serie di delitti» consistenti in «maltrattamenti e lesioni» alla ragazza. Massimo della pena.
Cristian Vasili Lepsa, però, non si arrende. E ricorre in Cassazione dicendo d’aver colpito la vittima per errore perché si era messa in mezzo a una rissa tra lui e il presunto rivale e lamentando il «mancato espletamento di perizia psichiatrica (…) essendo i fatti espressione di una gelosia patologica e abnorme, tale da escludere o comunque scemare grandemente la capacità di intendere e volere». Un raptus. Solo un raptus: aveva pure lasciato a casa la mazza da baseball…
E che fa la Suprema Corte? Gli dà ragione: non era un omicidio volontario ma preterintenzionale… Anzi, non manca una bacchettata ai giudici d’appello: non hanno operato «il necessario discrimine tra la gelosia che, in se stessa, ancorché morbosa, non costituisce un futile motivo, bensì uno stato emotivo e passionale, e la considerazione della vittima come proprio possesso…». Pena ridotta: 17 anni. È il 9 settembre 2014.
Nemmeno tre anni dopo, senza che mai la notizia della riduzione di pena sia uscita manco sulla dettagliatissima Ansa regionale, l’avvocato intima a «inquantodonna.it» di correggere l’imprecisione sull’omicidio «volontario». E fin qui, va bene.
Ma non basta: «Vi intimo entro cinque giorni e non oltre a rimuovere ogni informazione in merito al mio assistito poiché detto articolo risulta non più necessario» dato che «la notizia all’epoca ha raggiunto l’utenza nell’espressione del pieno diritto di cronaca». Perché insistere a ricordare quello spiacevole episodio che «ha visto coinvolto il mio assistito ben più di cinque anni fa»? Sic… Insomma, e la privacy?
L’Authority ha già risposto: certo, l’interessato ha il diritto di richiedere che i suoi dati vengano aggiornati ma, «al di là del caso specifico, le decisioni adottate dal Garante per accogliere o respingere le richieste di diritto all’oblio si basano su alcuni criteri guida: il trascorrere del tempo è senz’altro l’elemento più importante, ma l’esercizio di un tale diritto può incontrare rilevanti limiti…». Pochi anni bastano per chiedere l’oblio su un omicida?