Padoan: basta autoflagellarsi ma non è finita qui
Il ministro: altri crescono di più? Spesso hanno finanza pubblica in disordine o problemi bancari irrisolti «Crisi terminata però non fermiamoci». Micciché (Banca Imi): ci frena avere troppe aziende piccole e poche grandi
L’Italia è uscita dalla crisi «più profonda del Dopoguerra», ma «attenzione a non sedersi: per carità, guardiamo avanti». Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sembra chiedere aiuto. Accanto a lui ci sono personaggi di spicco dell’impresa, delle banche, della ricerca e altri tre ministri: degli Esteri, Angelino Alfano, dello Sviluppo, Carlo Calenda, e della Sanità, Beatrice Lorenzin, che ha organizzato questo convegno dal titolo «Crescita contro crisi», per contrastare quell’abitudine italiana, spiega, di piangerci addosso, nonostante il Pil sia in aumento dal 2014, la domanda interna e gli investimenti in ripresa, la disoccupazione in leggero calo, così come il debito pubblico. E tutto ciò è avvenuto, insiste Angelino Alfano, che è anche leader del partito della Lorenzin (Ap), perché «qualcuno, cinque anni fa, ha scelto di garantire la stabilità di governo in una legislatura che era nata con prospettive di grande incertezza».
Se però, come ha detto Lorenzin , il convegno «non è un appuntamento elettorale», ma un’occasione per dare la scossa alla parte più innovativa del Paese e comunicare fiducia ai giovani (in sala c’erano studenti delle Università Luiss e Cusano), ha fatto bene Padoan a insistere sulle cose che restano da fare, per «permettere all’enorme potenziale che l’Italia ha di svilupparsi», per esempio, raggiungendo «un tasso di crescita della produttività minimamente accettabile». Per il quale servono, hanno convenuto i partecipanti, più investimenti pubblici e privati e più innovazione. Che arriverebbero più facilmente se si risolvesse uno dei problemi di fondo: la piccola dimensione delle nostre aziende.
Lo ha detto Gaetano Miccichè di Banca Imi, dal versante finanziario: «Noi abbiamo troppe aziende piccole e poche grandi che, oltretutto, vogliono avere il controllo di almeno il 50% del capitale, il che è un freno alla crescita». Lo ha ribadito Federico Ghizzoni di Rotschild, dal versante dell’attrazione di capitali: «La prima cosa che guardano gli investitori è lo stato patrimoniale dell’azienda e dunque la piccola dimensione e scarsa capitalizzazione sono un problema». Lo ha confermato, infine, Elena Zambon, presidente dell’Aidaf, l’associazione delle imprese familiari, stimolata dal moderatore, Antonio Polito, vicedirettore del Corriere: «L’anomalia italiana non sono tanto il numero di imprese familiari, molto presenti anche in Germania e Francia, ma il fatto che sono piccole. E ciò è un limite perché non puoi prendere quei manager di qualità che ti fanno fare il salto competitivo». Eccolo dunque il filo conduttore. Piccolo non è più bello. Anzi.
Che fare, allora. Diversi imprenditori invocano incentivi ad hoc per favorire la crescita dimensionale. Calenda promette che si andrà avanti col pacchetto Industria 4.0. Giuseppe Recchi (Telecom Italia) incalza: «Bisogna accelerare: questa piccola crescita non basta», perché gli altri vanno più veloci. Per esempio, nonostante i progressi, l’export italiano vale circa un terzo del Pil, contro il 50% in Germania. Determinazione e cautela, quindi. Lo spiega Calenda: «Attenzione a non ripetere l’errore di dire che tutto andrà bene. I politici lo hanno fatto sulla globalizzazione e si è visto che non è stato così: i vincenti sono sempre più vincenti e i perdenti più perdenti. E ora non ripetiamo lo sbaglio a proposito dell’innovazione tecnologica, dipingendo un futuro tutto positivo, perché la gente non si fida più».
Export L’export italiano vale circa un terzo del Pil. Quello tedesco è la metà del prodotto