In Italia il test sul «gene Jolie» viene ancora usato poco
Le mutazioni «Brca» andrebbero cercate in caso di tumore a ovaio e seno
Tutte le donne che si ammalano di tumore all’ovaio dovrebbero essere sottoposte, fin dalla diagnosi, al test genetico per scoprire se siano portatrici o meno di una mutazione dei geni BRCA. L’informazione che si ottiene è importante sia per le pazienti stesse (per poter scegliere le terapie più appropriate) sia per le loro familiari sane che, se necessario, potrebbero adottare le opportune misure di prevenzione onde evitare di sviluppare un cancro a loro volta.
«Oggi però in Italia solo 3 malate su 10 vengono sottoposte al test al momento della diagnosi, come indicato ormai da tutte le principali linee guida nazionali e internazionali — spiega Nicoletta Colombo, direttore della Divisione di ginecologia oncologica medica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano —. Ci sono forti differenze fra le regioni nell’offerta del test, nel suo rimborso e anche nei tempi con i quali si ottiene l’esito per cui sono necessarie azioni a livello politico-amministrativo che rimuovano queste barriere».
A scattare la prima fotografia sul mondo del test BRCA nel tumore ovarico in Italia è Onda, l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna, attraverso un’indagine (condotta da Elma Research, con il contributo di Astra-Zeneca) su 210 centri con reparto di oncologia.
«Ne è emerso che solo a 6 donne su 10 con carcinoma ovarico viene proposto di fare il test BRCA e solo a 3 su 10 al momento giusto, cioè alla diagnosi — dice Francesca Merzagora, presidente di Onda —. Sono poi forti le disparità a livello regionale e solo 1 ospedale su 4 ha un laboratorio di riferimento per eseguire l’esame all’interno della propria struttura (molti ospedali consigliano persino di recarsi fuori regione per farlo), senza considerare che in troppi casi si impiega troppo tempo per ricevere l’esito (in media più di 2 mesi)». Per tutti questi motivi di recente Onda ha lanciato in Senato un forte appello alle Istituzioni, presentando un documento redatto con la consulenza di un gruppo di esperti multidisciplinari e patrocinato sia dalle principali società scientifiche sia dalle associazioni di pazienti.
«Va implementata l’offerta del test — continua Merzago- ra —, perché tutte le donne italiane lo ricevano (sono circa 6mila i nuovi casi di cancro ovarico ogni anno). Servono laboratori certificati con controllo di qualità e tempi di risposta più rapidi)».
«Se i BRCA sono mutati sappiamo che la malattia risponde meglio a un certo tipo di chemioterapia — chiarisce Colombo —, che la prognosi potrebbe essere migliore e, in caso di una recidiva, abbiamo farmaci mirati efficaci, i cosiddetti parp-inibitori».
C’è poi un risvolto importante sulle altre donne della famiglia: «Quando c’è un caso di cancro ovarico con mutazione dei geni BRCA si dovrebbe consultare un genetista esperto che valuti l’albero genealogico del nucleo familiare per proporre il test alla componente femminile che potrebbe essere a rischio di tumore — precisa Liliana Varesco, responsabile del Centro Tumori Ereditari al San Martino di Genova —. È un passaggio delicato ed è spesso utile la presenza di uno psicologo: bisogna dare tutte le spiegazioni necessarie e poi aiutare ciascuna donna a decidere, in caso il test sia positivo, quali siano le strategie preventive migliori per sé stessa.
«La pillola contraccettiva riduce del 50 per cento il rischio di ammalarsi di tumore ovarico, mentre l’annessiectomia (l’asportazione di tube e ovaie) viene consigliata dopo i 40 anni o in chi comunque ha completato il suo desiderio di diventare madre».
Una scelta estrema ma efficace, condivisa anche dell’attrice Angelina Jolie, che nel 2015 ha deciso in questo senso dopo aver scoperto di avere la mutazione genetica e aver perso per cancro tre donne della propria famiglia, fra le quali sua madre.