I saperi, le filiere e le reti La metamorfosi di Milano
Storicamente Milano ha rappresentato uno dei vertici del triangolo industriale, con una specificità rispetto a Torino e Genova ma pur sempre dentro un medesimo format fatto di grande impresa manifatturiera, una quantità di lavoro strutturato oggi impensabile e fusione tra città e industria. Quel modello centrato attorno alle grandi cattedrali della produzione è stato scalzato nel tempo dall’emergere di esperienze più flessibili, più vicine al capitalismo leggero del Nordest che all’industria pesante di Sesto San Giovanni. Al posto delle concentrazioni hanno preso forma le moderne filiere.
La metamorfosi
All’inizio si parlò di decentramento produttivo, quasi fosse una mera manovra per guadagnare margini di profitto, in realtà era molto di più. Il guaio è che questo movimento si è sviluppato quasi in parallelo con le disgrazie di molti settori dell’industria tradizionale come la grande chimica e la siderurgia e il senso di deprivazione associato a quelle sconfitte ha avuto la meglio. Tanto da oscurare il cambiamento e lasciare nella percezione per lo più ricordi negativi, mentre la dimostrazione che si trattasse di una metamorfosi viene, ad esempio, dal combinato disposto tra industria dell’arredo e design: la Brianza come solido retroterra industriale, capitani di impresa capaci di far coesistere creatività e logica del business, designer internazionali attratti da questa esperienza, negozi monomarca che «illuminano» la città, un grande evento globale come il Salone del Mobile che chiude il cerchio.
Torniamo però alla specificità milanese e quindi al commercio come testimoniato dalla forza reale/simbolica della Fiera campionaria e della cultura moderna che ne era il retroterra. Purtroppo quella forza nel tempo non si è tradotta nella nascita di un grande player internazionale alla pari dei francesi di Carrefour e di Auchan, il grande rimpianto si chiama Rinascente che, oltre a essere stata una straordinaria scuola di formazione, non è diventata la portaerei del made in Italy che serviva come il pane. Il quaderno dei rimpianti potrebbe allungarsi — perché l’Ikea l’hanno ideata e realizzata gli svedesi e non gli italiani maestri dell’arredo — ma a questo punto ha poco senso perché nel frattempo Milano è riuscita a diventare una delle capitali del retail pur senza poter contare su una presenza tricolore nella grande distribuzione europea. Non avendo le legioni di Sparta, Milano alla fine si è comportata alla ateniese ed è riuscita a diventare un posto in cui qualsiasi operatore di levatura internazionale deve esserci, innanzitutto per imparare. Per questa via ha introdotto una profonda discontinuità nella cultura del capitalismo italiano fieramente «montista», legato alla produzione e ai fattori a monte e quasi a digiuno invece della cultura del servizio e della capacità di creare valore nelle fasi a valle. La città ha saputo dimostrare che si crea ricchezza quanto più si è vicini al consumatore, lo si conosce e lo si rispetta. E questa acquisizione ha fatto sì che Milano, pur fra tante amnesie e interruzioni di continuità, sia riuscita a riconquistare il suo posto tra le grandi città terziarizzate del mondo. Si può dire che il made in Italy dal suo rispecchiarsi nella città del Duomo ne abbia ricavato una maturazione, sia riuscito a far sua l’idea che il gusto e l’eleganza non sono rendite di posizione ma continue sfide nel rapporto con il mercato.
I servizi professionali
Il secondo guaio è che un’analoga parabola non ha interessato un altro segmento pregiato del terziario: i servizi professionali della città, rimasti purtroppo a un livello di proposizione molto debole, segnalata dal basso contributo all’export e dall’avere un mercato circoscritto alla Regione e al massimo al nord Italia. Un terzo
Reputazione C’è una classe dirigente legata, più che alla ricchezza patrimoniale, alla reputazione nei luoghi dove si decidono le carriere nel mondo
fattore (di successo) utile da sottolineare in questa sede riguarda gli stili di vita e il peso che hanno assunto nel determinare l’attrattività delle città. Per molto tempo abbiamo considerato questo fattore di innovazione come bizzarro o fatuo, non avremmo mai immaginato che con l’evoluzione delle economie moderne si sarebbe trasformato in capacità di attrazione, in elemento di comunicazione globale e di conseguenza in crescita economica.
Del resto se studiassimo i casi di affermazione delle grandi economie urbane del pianeta rintracceremmo sicuramente nella capacità di cogliere lo spirito del tempo uno dei driver. Il sociologo Richard Florida aveva fatto sua e strutturato questa suggestione aggiungendo una terza T (quella della tolleranza) a Tecnologia e Talento individuati come elementi distintivi delle comunità creative.
Le trasformazioni della struttura economica e della cultura della città hanno determinato a loro volta profondi mutamenti della composizione stessa delle élite milanesi. Il sistema basato sullo stretto intreccio tra grande finanza e grande industria non ha retto ai cambiamenti dell’economia globale, ha pagato la tendenza a preservare il potere delle famiglie storiche e a evitare l’inevitabile confronto con il mare aperto. Il gioco delle partecipazioni incrociate e delle alleanze costruite in vitro ha avuto il torto di non temprare le élite rispetto a quanto sarebbe avvenuto e di ancorare le classi dirigenti milanesi a uno schema oligarchico. Sicuramente la riduzione delle ambizioni ha condizionato lo sviluppo della città e ha consumato energie che avrebbero potuto trovare qui il loro campo di pratica ma non ha condizionato del tutto l’evoluzione delle élite milanesi, perché quelle stesse energie respinte dalla struttura oligarchica hanno preso altre due direzioni intrecciate tra loro, la scena internazionale e la cura meticolosa delle competenze professionali.
La società aperta in questo modo ha rotto la camicia di forza. C’è stato un lento processo di sostituzione e via via la reputazione internazionale ha preso il sopravvento sulle logiche «castali» di tipo domestico, il ricambio ha potuto svilupparsi magari sotto traccia ma pur sempre con una linea di direzione chiara. Siamo passati