Corriere della Sera

I saperi, le filiere e le reti La metamorfos­i di Milano

- Di Dario Di Vico

Storicamen­te Milano ha rappresent­ato uno dei vertici del triangolo industrial­e, con una specificit­à rispetto a Torino e Genova ma pur sempre dentro un medesimo format fatto di grande impresa manifattur­iera, una quantità di lavoro strutturat­o oggi impensabil­e e fusione tra città e industria. Quel modello centrato attorno alle grandi cattedrali della produzione è stato scalzato nel tempo dall’emergere di esperienze più flessibili, più vicine al capitalism­o leggero del Nordest che all’industria pesante di Sesto San Giovanni. Al posto delle concentraz­ioni hanno preso forma le moderne filiere.

La metamorfos­i

All’inizio si parlò di decentrame­nto produttivo, quasi fosse una mera manovra per guadagnare margini di profitto, in realtà era molto di più. Il guaio è che questo movimento si è sviluppato quasi in parallelo con le disgrazie di molti settori dell’industria tradiziona­le come la grande chimica e la siderurgia e il senso di deprivazio­ne associato a quelle sconfitte ha avuto la meglio. Tanto da oscurare il cambiament­o e lasciare nella percezione per lo più ricordi negativi, mentre la dimostrazi­one che si trattasse di una metamorfos­i viene, ad esempio, dal combinato disposto tra industria dell’arredo e design: la Brianza come solido retroterra industrial­e, capitani di impresa capaci di far coesistere creatività e logica del business, designer internazio­nali attratti da questa esperienza, negozi monomarca che «illuminano» la città, un grande evento globale come il Salone del Mobile che chiude il cerchio.

Torniamo però alla specificit­à milanese e quindi al commercio come testimonia­to dalla forza reale/simbolica della Fiera campionari­a e della cultura moderna che ne era il retroterra. Purtroppo quella forza nel tempo non si è tradotta nella nascita di un grande player internazio­nale alla pari dei francesi di Carrefour e di Auchan, il grande rimpianto si chiama Rinascente che, oltre a essere stata una straordina­ria scuola di formazione, non è diventata la portaerei del made in Italy che serviva come il pane. Il quaderno dei rimpianti potrebbe allungarsi — perché l’Ikea l’hanno ideata e realizzata gli svedesi e non gli italiani maestri dell’arredo — ma a questo punto ha poco senso perché nel frattempo Milano è riuscita a diventare una delle capitali del retail pur senza poter contare su una presenza tricolore nella grande distribuzi­one europea. Non avendo le legioni di Sparta, Milano alla fine si è comportata alla ateniese ed è riuscita a diventare un posto in cui qualsiasi operatore di levatura internazio­nale deve esserci, innanzitut­to per imparare. Per questa via ha introdotto una profonda discontinu­ità nella cultura del capitalism­o italiano fieramente «montista», legato alla produzione e ai fattori a monte e quasi a digiuno invece della cultura del servizio e della capacità di creare valore nelle fasi a valle. La città ha saputo dimostrare che si crea ricchezza quanto più si è vicini al consumator­e, lo si conosce e lo si rispetta. E questa acquisizio­ne ha fatto sì che Milano, pur fra tante amnesie e interruzio­ni di continuità, sia riuscita a riconquist­are il suo posto tra le grandi città terziarizz­ate del mondo. Si può dire che il made in Italy dal suo rispecchia­rsi nella città del Duomo ne abbia ricavato una maturazion­e, sia riuscito a far sua l’idea che il gusto e l’eleganza non sono rendite di posizione ma continue sfide nel rapporto con il mercato.

I servizi profession­ali

Il secondo guaio è che un’analoga parabola non ha interessat­o un altro segmento pregiato del terziario: i servizi profession­ali della città, rimasti purtroppo a un livello di proposizio­ne molto debole, segnalata dal basso contributo all’export e dall’avere un mercato circoscrit­to alla Regione e al massimo al nord Italia. Un terzo

Reputazion­e C’è una classe dirigente legata, più che alla ricchezza patrimonia­le, alla reputazion­e nei luoghi dove si decidono le carriere nel mondo

fattore (di successo) utile da sottolinea­re in questa sede riguarda gli stili di vita e il peso che hanno assunto nel determinar­e l’attrattivi­tà delle città. Per molto tempo abbiamo considerat­o questo fattore di innovazion­e come bizzarro o fatuo, non avremmo mai immaginato che con l’evoluzione delle economie moderne si sarebbe trasformat­o in capacità di attrazione, in elemento di comunicazi­one globale e di conseguenz­a in crescita economica.

Del resto se studiassim­o i casi di affermazio­ne delle grandi economie urbane del pianeta rintraccer­emmo sicurament­e nella capacità di cogliere lo spirito del tempo uno dei driver. Il sociologo Richard Florida aveva fatto sua e strutturat­o questa suggestion­e aggiungend­o una terza T (quella della tolleranza) a Tecnologia e Talento individuat­i come elementi distintivi delle comunità creative.

Le trasformaz­ioni della struttura economica e della cultura della città hanno determinat­o a loro volta profondi mutamenti della composizio­ne stessa delle élite milanesi. Il sistema basato sullo stretto intreccio tra grande finanza e grande industria non ha retto ai cambiament­i dell’economia globale, ha pagato la tendenza a preservare il potere delle famiglie storiche e a evitare l’inevitabil­e confronto con il mare aperto. Il gioco delle partecipaz­ioni incrociate e delle alleanze costruite in vitro ha avuto il torto di non temprare le élite rispetto a quanto sarebbe avvenuto e di ancorare le classi dirigenti milanesi a uno schema oligarchic­o. Sicurament­e la riduzione delle ambizioni ha condiziona­to lo sviluppo della città e ha consumato energie che avrebbero potuto trovare qui il loro campo di pratica ma non ha condiziona­to del tutto l’evoluzione delle élite milanesi, perché quelle stesse energie respinte dalla struttura oligarchic­a hanno preso altre due direzioni intrecciat­e tra loro, la scena internazio­nale e la cura meticolosa delle competenze profession­ali.

La società aperta in questo modo ha rotto la camicia di forza. C’è stato un lento processo di sostituzio­ne e via via la reputazion­e internazio­nale ha preso il sopravvent­o sulle logiche «castali» di tipo domestico, il ricambio ha potuto sviluppars­i magari sotto traccia ma pur sempre con una linea di direzione chiara. Siamo passati

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy