Una nuova borghesia traina la città Il lavoro delle donne e gli stili di vita l’hanno riportata ai vertici d’Europa
dall’establishment finanziario a una «nuova borghesia delle competenze» legata, più che alla ricchezza patrimoniale, alla reputazione nei luoghi dove si decidono le carriere internazionali. Una classe dirigente che guarda e vive nel mondo, ma pur globalizzata non è disinteressata al «luogo» e infatti rimane radicata in città.
Ma come è stato possibile che negli anni della recessione più dura Milano sia riuscita a recuperare spinta, a cambiare il paesaggio delle proprie classi dirigenti e sia uscita dal tunnel con una velocità impressionante? Per queste domande esiste una risposta politicista che porta a enfatizzare la qualità del buongoverno milanese ma sinceramente non convince più di tanto e ciò senza voler negare l’impegno delle amministrazioni che si sono succedute a Palazzo Marino. C’è qualcosa di più profondo, quasi un flusso carsico.
Le reti internazionali
La straordinaria effervescenza messa in mostra da Milano trova la sua origine nella silenziosa e costante «posatura» di reti internazionali a opera proprio di quella borghesia delle competenze che in questi anni si è via via integrata nei network professionali e accademici che contano. È stata quest’appartenenza ai circuiti extranazionali, la continua interazione tra Milano e i luoghi globali del sapere che ha creato le condizioni dal balzo in avanti. Parlo di fenomeno carsico perché è avvenuto lungo tutti gli anni che vanno dai 90 a oggi e ha investito la sanità, la moda, il design, l’innovazione e l’università. Milano è diventata una tappa degli itinerari globali e questo le ha permesso di sottrarsi a una vicenda nazionale segnata da profonde difficoltà e da un clima angosciato. Che poi l’Expo sia stato, con la forza del suo impatto e della comunicazione, il luogo di coagulo di questa riemersione non deve stupire e sicuramente è servito a generare ulteriore valore.
Milano sta diventando un posto nel quale ci si trasferisce anche partendo da città europee (e non), esiste in città infatti una ricca comunità di «espatriati» che vengono dall’Inghilterra, dagli Usa, dalla Francia, dalla Germania e dall’Austria. Sono circa 50 mila e a loro si aggiungono
Senza poter contare su una presenza tricolore nella grande distribuzione europea, la metropoli è diventata una capitale del retail dove gli operatori vengono per imparare
36 mila studenti la cui lingua madre non è l’italiano. Se poi ricordiamo che un sesto delle imprese del territorio milanese non è controllata da italiani abbiamo un quadro complessivo dell’apporto di capitale umano dall’estero.
Il valore dei flussi
Forse di queste novità, del valore di questi flussi non c’è in città consapevolezza assoluta e rappresentano invece un campo sul quale investire per generare un processo di ulteriore crescita della città. Sempre alla voce capitale umano va segnalato, infine, lo straordinario contributo delle milanesi, del «fattore D» per dirla con il libro anticipatore di Maurizio Ferrera.
Una recente ricerca condotta da Roberto Cicciomessere e Lorenza Zanuso non solo ha messo in luce la grande partecipazione al mercato del lavoro delle donne nell’area metropolitana ma ha consentito di operare un paragone con due città europee simbolo dell’avanzata femminile come Stoccolma e Londra. Ebbene, mentre nel caso svedese la partecipazione al lavoro delle donne è rimasta comunque segregata per lo più nell’ambito delle occupazioni tradizionalmente femminili (sanità e scuola in testa), a Milano questa gabbia è stata superata e l’arco delle professioni che vedono impegnate le donne comprende largamente il terziario avanzato. Al punto che non risulta lunare una comparazione con la capitale inglese che il processo di valorizzazione del fattore D lo aveva iniziato molto tempo prima.