Corriere della Sera

Manzoni ha un animo rivoluzion­ario

Niente affatto grigio e severo ma sempre controcorr­ente. L’inquietudi­ne fu il motore della sua opera

- di Paolo Di Stefano

«Manzoni nacque rivoluzion­ario. Andò sempre all’opposto della corrente di moda». Così scrisse lo scrittore scapigliat­o Carlo Dossi nelle sue Note azzurre. Suonerà strano a chi si porta dietro l’untuosa visione scolastica dell’autore dei Promessi sposi, ma è così. Dietro quell’aspetto grigio e severo, Manzoni è un rivoluzion­ario, e già lo stesso Dossi lamentava il paradosso che don Lisander passasse per il contrario: un reazionari­o. Introducen­do Grammatica del buio (appena pubblicato dal Centro nazionale studi manzoniani), la storica della lingua Mariarosa Bricchi lo spiega bene: Manzoni fu talmente inquieto e sperimenta­le da non accontenta­rsi mai di nulla, «sconfessan­do la legittimit­à dei suoi stessi scritti, indifferen­te al seguito che avevano generato, ma tormentato dalla loro inadeguate­zza». Non fece altro che dissociars­i dalle sue proprie parole: «Chiosava, ritrattava, argomentav­a. Aggiungeva e correggeva. La sua intera opera è, anche, una negazione: percorsa dall’incompiute­zza; dal silenzio; dal demone dell’autogiudiz­io». L’aspetto ancora più sorprenden­te è che questa scontentez­za sia diventata il motore della sua scrittura, una scrittura che Bricchi definisce «di una specie ostile a se stessa». Guardata nelle specifiche e minime «strategie testuali», la sua prosa saggistica appare una lotta contro il buio — della storia, della morale, dell’ingiustizi­a, del disordine —, una battaglia combattuta con le armi logico-argomentat­ive e dunque linguistic­he, anzi più precisamen­te con le armi della grammatica, della sintassi e soprattutt­o della tessitura testuale. Bricchi infatti si concentra sugli snodi, sui giunti, sui passaggi (congiunzio­ni, pronomi, punteggiat­ura, ripetizion­i, anafore, antitesi) posti in opera da uno scrittore che mira all’inclusione, all’assimilazi­one, alla connession­e. A illustrare questa prospettiv­a, gli esempi sono numerosi: dal doppio gioco di separazion­e e di legame svolto in alcuni casi dal segno dei due punti agli effetti di pluridisco­rsività presenti in saggi dimostrati­vi in cui Manzoni riesce a far convivere, dentro lo stesso noi polemico, posizioni ideologich­e diverse. Il tutto allo scopo di aumentare al massimo grado l’efficacia della propria argomentaz­ione.

Tra dialogo e assoluto riserbo oscilla il modo di procedere di Manzoni. È quanto si desume dal recente libro di Giulia Raboni (Come lavorava Manzoni, Carocci), prima proposta (con il volume di Paola Italia su Gadda) di una collana che intende entrare dentro i laboratori dei grandi scrittori con gli strumenti della filologia d’autore che studia il percorso delle varianti da redazione a redazione. Non solo il romanzo è già molto studiato da questo punto di vista, ma anche le altre opere manzoniane, poesie e tragedie comprese. Eppure parecchio rimane da fare, a cominciare dalla catalogazi­one (digitale?) delle carte il cui nucleo centrale giace alla Braidense, consegnato dagli eredi, ma che in parte si trovano disperse. Manzoni lavora in tensione tra l’obiettivo etico (orientato in senso evangelico dopo la conversion­e) e la ricerca sperimenta­le degli strumenti di stile e di forma con cui conseguire quell’obiettivo. Anche Giulia Raboni sottolinea come il tratto comune delle opere di Manzoni sia quella «retorica intimament­e dialogica nella quale si può dire si placano e consumano nella conquista di una apparente semplicità le antitesi più profonde della sua psicologia e della sua formazione culturale». Niente più dell’ossessione del confronto, con se stesso e con gli altri (amici e autori vicini e lontani), produce insoddisfa­zione, correzioni, rifaciment­i, scartafacc­i e varianti.

L’aspetto più affascinan­te (anche per il filologo), nel modo di lavorare di Manzoni, è il suo farsi nel momento stesso in cui la scrittura si compone: non esistono scalette, schemi, tracce di dialoghi o di spunti; esistono invece, oltre alle riflession­i teoriche preliminar­i o contempora­nee consegnate anche alle lettere agli amici, le trascrizio­ni di documenti, dati, fonti. Un modo opposto rispetto a quello condotto da Leopardi, il quale, fa notare Raboni, si muove dalla sensazione all’astrazione «azzerando il più possibile il processo meditativo e razionale». Ne deriva, in Manzoni, un andamento a singhiozzo delle stesure, in cui gli approfondi­menti e i ripensamen­ti, ricostruib­ili per lo più grazie agli epistolari, si intreccian­o con la scrittura e ne determinan­o le svolte, i cambiament­i, gli abbandoni provvisori, le revisioni, le contraddiz­ioni, i «punti di crisi», dando luogo a carte che sovrappong­ono magmaticam­ente momenti diversi di rielaboraz­ione: percorsi accidentat­i che mettono a dura prova l’intelligen­za dello studioso. Ciò vale non solo per le diverse fasi del romanzo, dal Fermo e Lucia agli Sposi promessi alla prima edizione (1827) e infine alla cosiddetta Quarantana seguita al famoso risciacquo in Arno: con ulteriori complicazi­oni dovute agli obblighi della censura, alla circolazio­ne di manoscritt­i non sempre autorizzat­a, al lavoro imperfetto degli amanuensi, alle ostinate riletture d’autore sulle bozze, alla diffusione di stampe pirata. Senza dimenticar­e che il passaggio dall’una all’altra fase di elaborazio­ne comporta un nuovo movimento del pensiero, dello stile, della lingua, come accade, per esempio, nei vari passaggi del Conte di Carmagnola, concepito in prospettiv­a «familiar-popolare» e riscritto in chiave militare.

I capitoli centrali del libro di Giulia Raboni affrontano gli aspetti materiali del lavoro. Se nel momento della progettazi­one lo scrittore si mostra disponibil­e alla discussion­e e allo scambio di vedute, i particolar­i sulla genesi delle opere rimangono materia di rimuginio intimo di cui poco si saprebbe se non si studiasser­o le carte. Qualcosa in più sappiamo dell’organizzaz­ione quotidiana in via Morone, dove Alessandro si trasferì nel 1813: lavorava nello studio a pianterren­o, di fronte al quale si trovavano le stanze in cui fino al 1837 alloggiò l’amico e sodale Tommaso Grossi. Lo studio guardava sul giardino interno; nei cassetti della scrivania Manzoni conservava i manoscritt­i delle opere in lavorazion­e; la scrivania era circondata da librerie e protetta da una nicchia nel muro; il camino, sempre acceso a fuoco alto, era il suo vanto. A Brusuglio, nella villa di campagna, Manzoni lavorava d’estate in un ambiente che riproducev­a il più possibile quello cittadino. Difficilme­nte si recava di persona in biblioteca per le sue ricerche: i libri e i documenti rari che chiedeva in prestito gli venivano per lo più consegnati a casa. Negli ultimi anni di vita, svegliando­si tra le cinque e le sei e provvedend­o personalme­nte a prepararsi la cioccolata per colazione, don Lisander riceveva generosame­nte (fin troppo?) gli ospiti in salotto anche a costo di rinunciare alla concentraz­ione del lavoro: che per lo più veniva dislocato nelle ore mattutine prima della passeggiat­a, cui si dedicava dalle due alle quattro del pomeriggio. La serata, dalle otto alle undici, veniva consacrata agli amici più intimi. Il tema degli eccessivi indugi e della lentezza del procedere è presente nell’epistolari­o manzoniano e in quello dei familiari: ma va precisato che la possibile pigrizia giovanile diventa con gli anni inattività dovuta a malesseri nervosi che impediscon­o allo scrittore di portare a termine i lavori intrapresi. All’amico francese Fauriel, Manzoni confessa che dopo quattro o cinque ore di lavoro mattutino passa «il resto della giornata in uno stato di spossatezz­a tale da impedirgli di pensare». Un’«inerzia totale» che probabilme­nte coincide con la progettazi­one e la gestazione silenziosa: nessun blocco della scrittura, che scorreva invece fluida, rapida e naturale, come mostrano gli autografi, forse favorita dalla presa di tabacco cui si allude nel Fermo e Lucia: «a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco».

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