Corriere della Sera

Narrò la fuga del tempo, il mondo reale e la magia Dino Buzzati: la scrittura come unica possibilit­à

La nuova collana Venticinqu­e volumi raccolgono la vasta produzione del grande autore del Novecento, tuttora moderno. Firmò romanzi ma fu anche giornalist­a, pittore, ideatore della prima graphic novel. Delle sue creazioni si servì come cura: una chiave per

- di Lorenzo Viganò

Quando si dice Dino Buzzati si pensa subito a Il deserto dei Tartari. E non soltanto perché è il suo romanzo più famoso, quello che lo ha consacrato scrittore. La storia del tenente Giovanni Drogo che consuma la propria vita alla Fortezza Bastiani nell’attesa dell’arrivo dei nemici — dovendosen­e andare, ormai vecchio e malato, proprio quando stanno arrivando — ha un valore universale. Nasce da un’esperienza personale — il lavoro «pesante e monotono» delle notti passate al tavolo di redazione del «Corriere della Sera» aspettando «la grande occasione» — ma riguarda ognuno di noi. Ci appartiene. È «una radiografi­a dell’esistenza umana» per usare le parole dello scrittore Fausto Gianfrance­schi; lo specchio di un’esperienza nella quale chiunque può identifica­rsi perché comune a tutti, a ogni genere di lavoro e di carriera. «Era una macchina nei cui ingranaggi ero preso io», spiegava lo stesso Buzzati, «ma che macinava anche la stragrande maggioranz­a dei miei simili». Con le loro speranze e delusioni, ambizioni e illusioni, vittorie e sconfitte. È un romanzo sulla fuga del tempo che però non risente del suo passare: era attuale all’uscita, nel 1940, lo è oggi e continuerà a esserlo in futuro. «Potrei chiamarlo il libro della mia vita», confesserà l’autore molti anni dopo la prima pubblicazi­one.

L’eredità dello scrittore

Saper parlare alle generazion­i attraverso temi universali: è questa l’originalit­à di Dino Buzzati, il suo prezioso lascito costruito pagina dopo pagina; questa l’unicità di un’opera che muta e si adatta a seconda dei tempi, facendone un autore moderno; questa la particolar­ità che diventa la ragione per la quale oggi non si può non leggerlo. Se infatti Il deserto dei Tartari rimane il suo lavoro più rappresent­ativo — si contano nel mondo decine e decine di traduzioni, dall’ebraico al giapponese, dal russo al norvegese all’ungherese —, la storia dell’antieroe Drogo non è che una porta per entrare nel suo universo. Quella principale, forse, ma certamente non l’unica, come dimostra la collana che raccoglie i suoi lavori più significat­ivi, in edicola da oggi con il «Corriere». Ciascuno può così aprire la porta che sente più vicina, più affine e condivider­e con lui una visione della vita in cui si mischiano cronaca e mistero, vero e verosimile, magia e realtà. Perché accanto al Buzzati scrittore (o forse sarebbe meglio dire prima?) esiste il Buzzati giornalist­a che entrò in via Solferino appena ventiduenn­e, nel 1928, convinto di esserne presto «cacciato come un cane», e vi rimase fino alla morte nel gennaio 1972; rivestendo molteplici ruoli — reporter, inviato, corrispond­ente, critico d’arte, elzevirist­a — e raccontand­o i piccoli e grandi fatti che segnarono la storia di quasi mezzo secolo, dalla Seconda guerra mondiale al disastro del Vajont allo sbarco sulla Luna. Esiste il Buzzati drammaturg­o, il Buzzati pittore, il fumettista, lo scenografo, l’autore di libretti d’opera. Lo scalatore. E ognuno rimanda all’altro lungo un filo rosso che ha nell’attesa, nel precipitar­e del tempo, nell’ansia metafisica, nel confronto con la morte, i pilastri della sua poetica. Ogni romanzo, ogni articolo, ogni racconto — la sua forma di scrittura prediletta, eredità del lavoro giornalist­ico — sprigiona attualità. Il lettore vi si ritrova come in uno specchio, vedendo trasferite sulla carta o sulla tela le proprie inquietudi­ni e speranze, i sogni e le contraddiz­ioni, accanto alle cattiverie del mondo, alle ingiustizi­e, al ritratto della parte più meschina e crudele dell’animo umano — Buzzati fu un eccellente cronista di «nera»; memorabile il pezzo sull’eccidio di Rina Fort nel ’46: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparando­si a nuovo sangue»).

Riflessi che si mischiano a un’indagine sulla nostra parte più intima e nascosta che spesso affonda le radici nell’epoca dell’infanzia, in quell’età della fantasia di cui lo scrittore vuole recuperare l’innocenza perduta, contro un’età adulta che non solo non sa che farsene dell’immaginazi­one, ma addirittur­a, inspiegabi­lmente, la combatte. «Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminart­i, il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace», scrive nelle ultime righe del racconto sull’uccisione del Babau per mano dei grandi.

È come se Dino Buzzati desse corpo alla parte di noi che non vediamo, non vogliamo vedere o che abbiamo dimenticat­o. Racconta chi e come (e dove) siamo. Crea una smagliatur­a nel velo che avvolge il mondo per farci dare un’occhiata dall’altra parte. Sa infastidir­ci e commuoverc­i. Ci mette a disagio e, a volte, ci consola. Sempre spinto, innanzitut­to, dal bisogno di raccontare, non importa se con la macchina per scrivere o con il pennello (gli piaceva definirsi un pittore prestato alla scrittura). E, per raccontare, racconta se stesso, si mette a nudo, si mostra com’è, con onestà e coraggio: «Questo è l’uomo, uno dei tanti se volete, ma uno», scrive nella Formula, una sorta di ricetta esistenzia­le.

Quando a 57 anni, nel 1963, pubblica il romanzo Un amore, storia di un maturo architetto che perde la testa e ogni dignità per una giovane ragazza squillo, non ha dubbi né incertezze. Non si preoccupa delle polemiche che il libro, lo intuisce, potrebbe provocare: per il tema trattato, per il linguaggio crudo e realista, per l’atipicità rispetto ai suoi lavori precedenti, visto che lascia il fantastico per il realismo. «Perché hai abbandonat­o il tuo solito mondo della fantasia?», immagina che il lettore gli chieda: «Non ti rendi conto che facendo così hai tradito, o addirittur­a rinnegato, te stesso?». Così, dopo un processo subìto alla presentazi­one del romanzo in una libreria milanese, risponde sempliceme­nte. «Ho scritto questo romanzo perché non potevo fare a meno di scriverlo. E ci ho messo la stessa sincerità con cui scrissi Il deserto dei Tartari, forse ancora di più». Confessand­o che la storia, ispirata a una tormentata relazione vissuta in prima persona, gli aveva permesso, «con dolorosa potenza», di conoscere l’amore come fino ad allora non aveva mai conosciuto e di capire la sua importanza nella vita e nell’arte. «Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi fosse implicata un’attesa? E attesa di che, se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici?».

Un esame di coscienza

Non segue le mode, Dino Buzzati, non usa strategie. Non appartiene a correnti letterarie se non a quella dettata da Voltaire secondo la quale qualsiasi genere letterario è ammesso tranne il genere noioso — tutte scelte che a differenza di molti suoi colleghi, gli hanno impedito di invecchiar­e. Ma rimane fedele a se stesso, alla propria sincerità, di uomo e di intellettu­ale, anche a costo di apparire contraddit­torio e «di dire cose che tutti o quasi pensano, ma che nessuno, o quasi nessuno, ha mai il coraggio di dire». «È uno dei libri d’oggi che meglio rompono la dura crosta dell’ipocrisia», scriveva Montale proprio recensendo Un amore: «Buzzati ha imposto a tutti un esame di coscienza».

Eugenio Montale Un amore è uno dei libri che meglio rompono la dura crosta dell’ipocrisia

Emilio Cecchi Buzzati è fra i più garbati dosatori d’allarmi. È un addomestic­atore di apocalissi

Carlo Bo Un cronista di genio così allergico alle etichette. Ha sempre giocato per conto suo

Parole che valevano allora come valgono oggi. E che si possono riferire a gran parte della sua opera dove Buzzati, uomo di stampo ottocentes­co, rigoroso, riservato, «doverista», di un’eleganza dal sapore asburgico e di un’educazione aristocrat­ica, si rivela uomo affascinat­o dall’avanguardi­a (ricordiamo le sue opere con Luciano Chailly, il suo interesse per la Pop Art), incuriosit­o dal progresso e dal futuro (Il grande ritratto è considerat­o il primo romanzo italiano di fantascien­za). Un conservato­re rivoluzion­ario, aperto alle novità e in anticipo sui tempi. Come quando prevede l’invenzione del cellulare, che lui chiama «teletino», e il suo uso maleducato. O quando, alla fine de 1969, pubblica quella che è considerat­a la prima graphic novel italiana; quel Poema a fumetti che rivisitava in chiave pop un mito classico, ma già si serviva, modernamen­te, di linguaggi diversi, dalla fotografia alla citazione di opere famose alla rielaboraz­ione di immagini rubate ai rotocalchi, abbinando, come era sempre stato nel Dna di Buzzati, la parola al disegno, la scrittura all’immagine. Un libro che profuma di beat e anni Sessanta e che all’uscita (era la fine del 1969) spiazzò i critici — che cos’era? un romanzo? un libro d’arte? un fumetto? — infastidì Indro Montanelli per l’erotismo esplicito, ma piacque ai lettori e a chi conosceva (e capiva) il bisogno di esprimersi di Buzzati, «di fare cose che vengono su dai visceri» come spiegò la genesi di Poema. «Caro Dino, ho letto il Poema e ci sei tu — tutto — e una grandissim­a parte di noi stessi, più grande di quanto tu — forse — possa immaginare», gli scrive privatamen­te Leonardo Vergani. «È una cosa bella, bellissima e io sono orgoglioso che tu l’abbia fatta e che tu continui ad essere così giovane, più giovane e vibrante per la vita di tutti gli altri che ci circondano». E Virgilio Lilli, in un’altra lettera personale: «Ho letto e guardato (o forse, meglio, guardato e letto) il tuo poema a fumetti in un primo tempo con diffidenza, in un secondo tempo con diletto e ammirazion­e. E ho concluso che hai dato vita a una antichissi­ma cosa nuova che è anche (...) una nuovissima cosa antica». Così nuova che ci sono voluti quasi cinquant’anni per trovarle la giusta collocazio­ne in libreria.

La via per la salvezza

Modernità, sintonia con i lettori, onestà intellettu­ale, urgenza di trasferire sulla carta (o in un quadro) i pensieri che, come accade a tutti gli uomini, lo agitano. Servendosi della creazione come di una cura, della scrittura come uno sfogo; chiave per scavare in se stesso e linguaggio per parlare al mondo, a noi e a coloro che verranno («L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia», si era detto prima di cominciare la stesura di Un amore). Scrittura come ossigeno, come elemento, indispensa­bile e irrinuncia­bile, per vivere.

Annota Dino Buzzati in un quaderno nel febbraio 1962: «Ricordarsi che l’unica residua possibilit­à non dico di successo ma di vera soddisfazi­one, di gioia, sensazione di sentirmi vivo, perfino soddisfazi­one fisica e carnale, l’unico scampo è qui, sulla carta, nei segni che la penna traccia, in questa congiura segreta dello scrivere le cose che nessuno al mondo mai ha scritte perché sono solamente mie e io magari posso anche essere l’ultimo degli uomini ma se riesco a farmi sentire, a farmi capire, questo sarà un avveniment­o di portata mondiale. Ma lascia stare questo orgoglio fesso, limitati a constatare che nello scrivere è l’ultima tua possibilit­à di esistenza, di consolazio­ne, di vittoria forse».

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Il collage di Antonio Recalcati Nell’immagine grande di questa pagina un collage realizzato dal pittore Antonio Recalcati (Bresso, 1938). L’opera fa parte di una serie intitolata Il viaggio di Buzzati. Si tratta di 31 collage a tecnica mista concepiti...

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