Corriere della Sera

Vite sospese

- di Massimo Gramellini

In un suo racconto Dino Buzzati immagina l’inferno come una enorme sala d’aspetto in cui i defunti attendono una decisione sul loro destino, senza sapere se e quando arriverà. Approssima­ta per difetto, è la situazione della giustizia italiana. In queste ore tiene banco il caso di Roberto Saviano e Rosaria Capacchion­e. Quando l’avvocato del clan dei Casalesi li minacciò nel bel mezzo di un processo, anche un pessimista avrebbe scommesso sulla rapida conclusion­e della vicenda. Il reato era stato commesso sotto gli occhi di tutti, addirittur­a in un’aula di tribunale, non richiedeva indagini o interrogat­ori particolar­i. E invece la macchina dell’imbroglio si è messa inesorabil­mente in moto. Chili e chili di carte bollate per arrivare, dopo dieci anni e una prima sentenza di condanna, alla scoperta che il processo aveva sbagliato indirizzo: era rimasto a dormire a Napoli, mentre avrebbe dovuto prendere il treno per Roma. Dove adesso ricomincer­à daccapo, girando intorno a se stesso come un criceto sulla ruota, finché la prescrizio­ne vi apporrà il timbro dell’oblio.

Se una storia di ordinaria in-giustizia riesce ancora (forse) a bucare la crosta della rassegnazi­one è per la popolarità delle vittime e la pericolosi­tà del beneficiar­io: la camorra. Ma la sensazione di impotenza che tormenta Saviano e Capacchion­e è condivisa dai troppi italiani a cui è toccato frequentar­e questo teatro dell’assurdo, dove gli iniziati agli arcani della Legge accatastan­o parole su parole, smarrendos­i in un labirinto di forme che paralizza la vita degli onesti e spesso finisce per migliorare solo quella dei furbi.

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