Scena del crimine
Per gli accademici e alcuni politici il massacro di Las Vegas non è terrorismo. Perché non è emersa finora alcuna motivazione politica. Credo che sia venuto il momento di rivedere questa valutazione: i tempi sono mutati, l’autore dell’attacco ha condotto un’azione terroristica. Lo rivelano i comportamenti, l’impatto sulla sicurezza e cittadini.
Stephen Paddock, nelle settimane precedenti l’attentato, ha compiuto mosse che paiono indicare la volontà di liberarsi di tutto. Ha inviato 100 mila dollari nelle Filippine, forse per costituire un gruzzolo in favore della compagna mandata all’estero. Probabile la volesse lontana al momento dell’assalto. Ha giocato forte al casinò (160 mila dollari), si è come isolato. Dicono avesse manifestato di recente segnali di instabilità mentale che non gli hanno impedito però di pensare agli obiettivi. Non è escluso che avesse in mente di colpire il 22 settembre in occasione di un altro show, nei pressi dell’hotel Ogden. Piano mutato in quanto non avrebbe trovato una situazione logistica favorevole. La sua attenzione si è allora concentrata sul Mandalay Bay, alveare con 3.200 stanze. Come un guerrigliero ha scelto il terreno ideale dove lanciare la sfida: i casinò. Li ha frequentati per anni, abituato alle loro misure, consapevole che le telecamere di sicurezza lo avrebbero ripreso. Se si comportava normalmente nessuno avrebbe fatto domande. Era la sua «giungla».
Designato il «campo» ha costruito l’avamposto. Una suite, con due lati di finestre: la miglior posizione per centrare gli spettatori. Elevata per avere un’ottima visuale e «remota» in modo da creare uno spazio tra lui stesso e la polizia. Se avesse colpito mescolandosi alla folla lo avrebbero neutralizzato quasi subito. Nella stanza 32-315 ha portato 19 fucili modificati usando una decina di borsoni, ha messo fuori il cartellino «non disturbare» sapendo che le cameriere, salvo situazioni particolari, non sarebbero entrate. Ha impilato vicino ai divani