Corriere della Sera

Come fare per tenerli sotto controllo dopo la pena

- Giusi Fasano

Il professor Paolo Giulini è un criminolog­o clinico. Si occupa da molti anni di sex offender, di prevenzion­e e trattament­o delle condotte sessuali devianti.

Prof, se non basta individuar­li, arrestarli, condannarl­i. Se non basta il carcere per rendere inoffensiv­o un pedofilo, allora che cosa si può fare?

«La durata del carcere per un soggetto a rischio non modifica le pulsioni devianti. Si è puntato tutto sulla parte punitiva e nelle carceri quel che vediamo sono pene importanti che mettono queste persone in condizioni di ibernazion­e penitenzia­ria. Forse l’effettivit­à della pena c’è, però manca l’efficacia». E come ci si arriva? «Mettendo in campo profession­isti, trattament­i ad hoc e risorse che siano in grado di individuar­e il rischio di recidiva. Il nostro sistema è inadeguato perché tutta questa parte manca. E invece riuscire a intercetta­re chi può tornare a commettere quel tipo di reato e creare percorsi di presa in carica psicologic­i, vuol dire evitare che si ricreino le stesse situazioni. È nell’interesse di tutti».

Cosa intende esattament­e con presa in carico psicologic­a?

«Intendo dire che le persone che vengono individuat­e ad alto rischio di recidiva — che non è così alta com’è percepita a livello sociale — andrebbero monitorate e accompagna­te, a fine carcere, con controlli e interventi psicologic­i. Letteratur­a ed esperienze internazio­nali ci confermano che i trattament­i psicologic­i di gruppo funzionano». In Italia non sono previsti. «Il nostro Paese non prevede la possibilit­à di seguire sul territorio i soggetti a rischio di recidiva quando finiscono di scontare la pena, mentre in altri Paesi esiste l’obbligo di trattament­o davanti a situazioni di pericolosi­tà. Noi a Milano, con il Presidio criminolog­ico territoria­le del settore sicurezza, l’abbiamo un po’ generato, quest’obbligo. Abbiamo ottenuto dalla magistratu­ra provvedime­nti che andavano in questo senso, come l’obbligo a frequentar­e i nostri corsi o il passaggio in una comunità».

Ha mai considerat­o l’utilizzo di farmaci?

«Noi come équipe non avremmo nulla in contrario, per i casi più gravi, a sperimenta­re assieme agli psichiatri anche il trattament­o farmacolog­ico. Ovviamente questo non ha nulla a che vedere con la castrazion­e chimica. Parlo di presa in carico psicologic­a perché immagino un percorso del soggetto in questione, non si può essere obbligati a prendere un farmaco, ci vuole consapevol­ezza. Devi volerlo prendere».

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