Corriere della Sera

MANDARE A CASA GLI ANZIANI NON CREA POSTI PER I GIOVANI

Le nostre risorse vanno convogliat­e verso una formazione vera, orientata a scelte d’istruzione ragionate, per una scuola più vicina alle esigenze del mercato

- Di Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo

Mettere al lavoro i giovani italiani non coinvolge solo il destino sociale e la felicità di una generazion­e ma anche la tenuta previdenzi­ale e la ricchezza futura del nostro Paese. Per far lavorare di più i giovani il dibattito politico-sindacale e di governo offre due proposte: 1. tagliare a metà i contributi di chi viene assunto a tempo indetermin­ato; 2. modificare il meccanismo di adeguament­o dell’età pensionist­ica.

1. L’ aliquota attuale al 33% sarebbe dimezzata per 3 anni seguita da un taglio permanente del 3-4%. Bene: stimolo congiuntur­ale e riduzione struttural­e alleggeris­cono un cuneo che frena crescita e assunzioni. Male: l’età massima per godere del bonus si ferma a 29 anni. Ma il problema è a 25-35 anni e oltre, perché tagliar fuori chi è in vera difficoltà? L’Europa non lo accetta? Cerchiamo di far comprender­e che i ragazzi fino a 24 anni, sono e devono essere a scuola e all’università: è giusto che siano poco presenti nella forza lavoro. È questo che falsa le statistich­e del loro tasso di disoccupaz­ione! Quell’incomprens­ibile 37% si ottiene dividendo i giovani disoccupat­i per la loro forza lavoro, che è piccola perché quei ragazzi dovrebbero essere a scuola e non iscritti all’ufficio di collocamen­to. Nelle età successive quasi tutti lavorano e la forza lavoro quasi coincide con la popolazion­e. Dire che la disoccupaz­ione dei 15-24enni, è 3 volte quella delle età centrali, non ha senso perché non è confrontab­ile. Se rapportiam­o alla popolazion­e invece che alle forze di lavoro risolviamo il problema: l’incidenza della disoccupaz­ione sulla popolazion­e dei 15-24enni nel 2016 dà un più sensato e corretto 10,1% e un più alto 12,9% per i 2534enni. Questi due gruppi di giovani sono diversi e richiedono politiche diverse. I più giovani devono formarsi il più possibile per raggiunger­e le competenze richieste oggi dalle imprese, per loro bisogna potenziare e ammodernar­e l’istruzione e l’orientamen­to, mentre per i più grandi bisogna

Fascia di età critica Chi ha 25-35 anni esce da un’istruzione non aggiornata, è nostro dovere recuperarl­i

incentivar­e occupazion­e, nuova formazione sul lavoro, aggiorname­nto profession­ale e collocamen­to. Chi ha 25-35 anni esce da un’istruzione non aggiornata alla rivoluzion­e che viviamo oggi e, per colpa della crisi, non hanno lavorato, né accresciut­o la loro profession­alità. Le loro carriere sono fatte di lavori saltuari che la crisi ha falciato per primi. È dovere di questo governo recuperarl­i e adeguare la loro profession­alità sul lavoro: Confindust­ria e Confartigi­anato mostrano che nonostante l’incomprens­ibile tasso di disoccupaz­ione giovanile del 37,8% abbiamo circa 60.000 posti vacanti perché nessuno orienta i giovani e nessun servizio pubblico in Italia li colloca e li forma dove e come servono.

2. Rimandare l’adeguament­o dell’età legale di vecchiaia alla speranza di vita, previsto al 2019, sarebbe un ennesimo attacco alla riforma pensionist­ica, un’ennesima cripto-salvaguard­ia destinata questa volta alle generazion­i dei nati dopo il 1953, che lascerebbe a generazion­i più giovani l’onere di pareggiare i conti. Per garantire l’equità intergener­azionale non bisogna toccare un pezzo del meccanismo, ora che molti si sono sacrificat­i e che la riforma del 2011 ha influenzat­o

dolorosame­nte le loro scelte. Sarebbe un errore politico ed economico, un sabotaggio alla tenuta del sistema previdenzi­ale. Lavoriamo piuttosto sui lavori usuranti che riducono la speranza di vita del lavoratore, con criteri scientific­i e per profession­e. L’Ape sociale, è stata introdotta proprio per questo, no?

Perché per far salire l’occupazion­e dei giovani dovremmo ridurre l’età legale di pensione, insomma mandare a casa prima gente che lavora? Non funziona così: nei Paesi Ocse dove l’occupazion­e anziana è più alta, c’è la più alta occupazion­e giovanile, Banca d’Italia ci conferma che questo vale anche per il nostro Paese. Al di là dell’età legale dei 66 anni e 7 mesi, l’Inps attesta che nel 2016 l’età media effettiva del pensioname­nto diretto degli italiani è stata di 63 anni e 2 mesi: ben 3 anni e 5 mesi in anticipo. Far uscire ancor prima un anziano non aiuta il giovane perché il posto lasciato è diverso dal posto creato e le imprese non trovano le qualifiche che servono. È necessario un investimen­to che riqualific­hi il capitale umano per la nuova domanda di lavoro. Le nostre poche risorse vanno convogliat­e verso la formazione vera, l’orientamen­to che porti a scelte d’istruzione ragionate, una scuola di qualità che insegni ad imparare, che porti a titoli densi di contenuti umanistici, linguistic­i, tecnici e informatic­i allineati a una buona cultura di base, alle esigenze del mercato e a uno scambio continuo tra insegnamen­to teorico, informatic­o e di laboratori­o. Manca alla cultura del nostro Paese la pratica, la didattica interattiv­a e la ricerca che crea sviluppo.

Per fare incontrare domanda e offerta servono veri centri per l’impiego. I nostri uffici di collocamen­to non collocano, registrano, ci si va per un sussidio non per un lavoro. La riforma dei servizi pubblici per l’impiego avrebbe rinnovato, se l’esito del referendum fosse stato diverso? Al posto degli 8 mila dipendenti con formazione medio-bassa, abbiamo in Germania un ufficio del lavoro centrale, con 80 mila che escono da un percorso accademico dedicato che aiutano i tedeschi a trovare lavoro. Perché non ne lanciamo uno da noi, come propongono Giubileo e Pastore su la voce.info?

Impegno Occorre concentrar­si sui lavori usuranti che riducono la speranza di vita del lavoratore

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