Corriere della Sera

UN’AGENDA PER IL NORD CHE VOTA

L’AGENDA NECESSARIA SUL NORD CHE VA A VOTARE

- Di Venanzio Postiglion­e

Una giornata lunga. Sembrava cabaret ma era politica, o viceversa: 13 settembre 1996. Umberto Bossi, come un dio pagano, si presentò sul Monviso, raccolse l’acqua del Po in un’ampolla di Murano e la mostrò alla folla. Molte bandiere, un po’ di birre. Poi seguì il fiume fino alla foce, annunciò la secessione sapendo che non ci sarebbe stata, minacciò mezzo mondo e se ne tornò in Parlamento. Più forte.

Passati 21 anni, in Lombardia e in Veneto si vota per l’autonomia. La Catalogna sembra Marte, tanto è lontana: Barcellona straccia la Costituzio­ne, Milano e Venezia la rispettano. Di più: seguono alla lettera la riforma voluta dal centrosini­stra nel 2001 (terzo comma dell’articolo 116). Una strada scelta dalla Lega proprio nei mesi in cui Salvini scavalca gli Appennini e si sente «nazionale», lascia perdere la Padania e forse rinuncia anche al termine «Nord». Politica e paradossi vanno spesso d’accordo. Ma Roberto Maroni e Luca Zaia, che hanno voluto il referendum del 22 ottobre, non predicano la secessione e non nascondono l’ampolla del Po nel cassetto, così come Gentiloni non manderà i soldati a chiudere i seggi (questa è una delle poche certezze).

I due quesiti, della Lombardia e del Veneto, sono addirittur­a rispettosi dell’unità del Paese e chiedono di avviare trattative per allargare le competenze. Tutto secondo le regole. Lo scontro politico, per ora, è più sui soldi da spendere per il voto che sulle ricadute istituzion­ali.

In Lombardia, dove non c’è il quorum, si prevede di «richiedere allo Stato ulteriori forme e condizioni particolar­i di autonomia». In Veneto l’obiettivo è lo stesso, ma va raggiunto il 50 per cento dei votanti. Un sondaggio della stessa Lega dice che non sarà facile convincere gli elettori. Evento politico senza ricadute? Soltanto simbolico e poco altro? Non è detto. Anche perché Maroni e Zaia hanno, da sempre, un profilo più di governo che di lotta: i quesiti rivelano un’impronta propagandi­stica ma rispecchia­no esigenze profonde (e sentite sul serio). Ora che i referendum esistono, decisi e fissati, ci sarebbe un sentiero per riempirli di senso. Di concretezz­a. Prima, durante e dopo. La strada si chiama «questione settentrio­nale». Che si può tradurre in dieci libri ma anche in poche battute: abbiamo la prua dell’Italia, la garanzia di vita in Europa, e la teniamo imbrigliat­a come se fosse pericolosa. Dario Di Vico, sul nostro giornale (25 settembre), ha già dimostrato che la nuova e vera Regione del Nord si chiama A4, l’autostrada che va da Torino a Trieste: tutt’attorno vivono e lavorano 26 milioni di persone, c’è la gran parte dei distretti, della manifattur­a, dell’innovazion­e, e c’è Milano che negli ultimi anni si è presa il ruolo di città guida nell’immaginari­o collettivo nazionale.

La spinta per l’autonomia è solo un passo: il riscatto delle Regioni non può essere fatto

di vecchi confini e nuovo centralism­o. La questione è, appunto, settentrio­nale: non solo lombarda e veneta. È fatta di un sistema fiscale labirintic­o, di infrastrut­ture che scoppiano, di fiere, aeroporti e università che giocano spesso partite autorefere­nziali e autoconser­vative. L’ha detto bene Carlo Bonomi, il nuovo presidente di Assolombar­da, «il Nord deve ritrovare una visione e allo stesso tempo tornare nell’agenda pubblica». Per diventare il «traino solidale del Paese».

Questione settentrio­nale Al di là della propaganda della consultazi­one ci sono problemi reali che vanno affrontati

Un’accelerazi­one sull’autonomia per aprirsi e lavorare con le altre Regioni, non per disegnare frontiere più alte. In Lombardia, non a caso, il referendum è partito anche per iniziativa dei Cinque Stelle e adesso conta sul sostegno di Beppe Sala, sindaco di Milano, e di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, cioè del centrosini­stra che governa. Un fronte trasversal­e che può annacquare il tema o, al contrario, liberarlo dalle convenienz­e di partito.

Se prima e dopo il referendi

Ostacoli e crescita La macroarea che va da Torino a Trieste è la prua di una nave che adesso va liberata

dum si farà politica, se si ascolterà la voce delle imprese, delle profession­i, dei nuovi lavori, allora il voto avrà avuto un valore: che il risultato sia sì o che sia no, che sia astensione o partecipaz­ione. Il ritorno del Nord nel dibattito ( e nelle scelte) sarebbe un successo in sé. Non è il folclore geniale ma sterile di quel 1996 sul Monviso e dei bergamasch­i armati evocati da Bossi. È lo specchio di una gigantesca fetta d’Italia che può camminare a fatica o mettersi a correre in Europa. Con uno scenario sorprenden­te, oltre i luoghi comuni. La Spagna che si spacca e si lacera, l’Italia che discute in pace. Di contenuti. Di regole da cambiare. Di nuove forme di autonomia che servano alla crescita del Nord e di tutto il Paese. Potremmo essere più bravi degli altri, per una volta: fa bene anche dirselo.

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