Corriere della Sera

LE START UP FUNZIONANO?

In Italia neanche le società più innovative fanno muovere verso l’alto l’ascensore sociale Tra investimen­ti (pochi), percezione e realtà: «Non sono ancora nell’immaginari­o dei giovani»

- Massimo Sideri

L’ascensore sociale si è rotto, anche per le «start up». In Italia non ha mai funzionato molto bene ma ora i segnali, seppur sottili, sono di un peggiorame­nto: dal primo piano c’è chi si ritrova al mezzanino. Dal sogno americano all’incubo italiano: vivere in condizioni peggiori dei propri genitori, almeno nella percezione.

L’ascensore sociale è un fenomeno molto complicato da rilevare, ancor più oggi con un’economia e con delle profession­i in continua evoluzione. A registrare il segno negativo per tutta la complessa struttura socio-economico italiana è stato l’Istat con il rapporto 2017: la crisi iniziata nel 2008, il cui epicentro è il crac Lehman Brothers, ha reso il ceto medio meno sicuro sulle prospettiv­e future. Ma c’è un altro aspetto che le analisi non sono riuscite a cogliere, forse anche per la dimensione lillipuzia­na del fenomeno e per la sua scarsa capacità di essere intercetta­to dalle statistich­e percentual­i: anche se andiamo a guardare le start up, cioè le nuove società innovative a cui affidiamo sogni e speranze di una generazion­e che soffre del 35 % di disoccupaz­ione, l’ascensore sembra essere percepito più come un «discensore» sociale. Lo ha ricordato anche recentemen­te il ministro Carlo Calenda: tra le politiche del governo le meno efficaci sono state quelle che dovevano rinvigorir­e il venture capital, cioè i fondi specializz­ati in rischio, e le start up.

Per comprender­e come sia possibile che in questo settore potenzialm­ente dinamico la percezione sia di un arretramen­to per Giuseppe De Rita, presidente del Censis, bisogna partire dal «mito» sociale: «Quali sono i miti oggi? Prendiamo la fascia di età che va dai 14 ai 29 anni. Al primo posto ci sono i social network, all’ultimo posto ci sono le start up digitali. In Italia la start up non entra nell’immaginari­o sociale dei ragazzi: non è un mito. L’ascensore sociale funziona se c’è il carburante e il carburante in questi casi è immaginare un luogo del futuro dove stare. Il lavoro autonomo, la casa, la seconda casa, la libera impresa sono tutti meccanismi di immaginari­o sociale che i ragazzi non hanno più e questo fa sì che l’ascensore sociale non solo sia fermo ma anzi si stia comprimend­o, perché lo spazio di immaginari­o del nuovo fa fatica ad emergere».

Esiste sempre la classe sociale?

A complicare ulteriorme­nte la matassa c’è il fatto che lo stesso concetto di classe è per certi versi superato, tanto che il rapporto Istat 2017 fa notare che «la perdita di confini tra classi sociali (...) ha evidenti ricadute sulla percezione di appartenen­za e sulla possibilit­à di guadagnare mobilità sociale verso l’alto, sia intragener­azionale, sia intergener­azionale e ciò è particolar­mente vero per le nuove generazion­i».

I risultati economici non aiutano. Secondo l’Assolombar­da a tre anni dalla fondazione già due start up su dieci chiudono contro una su dieci, per esempio, in Germania. E questo nonostante un territorio rilevato, Milano e la

Brianza, dove si concentran­o i pochi venture capital italiani.

L’effetto Google

Naturale, si penserà. È un settore ad alta mortalità che si basa sull’effetto Google: molte muoiono con il passare degli anni ma quelle poche che ce la fanno dovrebbero creare ricchezza e opportunit­à per tutti e, comunque, dovrebbero alimentare il «mito» dell’opportunit­à che la tecnologia offre. Ma un confronto con altri Paesi limitrofi lascia sulla carta il sospetto che ci sia un caso Italia. Difficile dimostrare un legame di causa-effetto tra scarso successo economico del fenomeno delle start up in Italia e ascensore sociale in ritirata. Sono i casi in cui gli indizi (che pure ci sono) non possono essere presi come prove. Ma fare finta di nulla sarebbe più grave. Anche perché l’analisi va allargata alle differenze tra generazion­i e al tradiziona­le rapporto con un altro «mito» sociale, quello della grande azienda.

«Non sappiamo dove si collochino gli startupper nella scala sociale» ragiona Renzo Noceti, ex head hunter «tradiziona­le» che ha fondato con Marco De Palma Simbiosity per applicare la strategia dei cacciatori di teste al giovane fenomeno imprendito­riale italiano: «In base a elementi quali la disponibil­ità di mezzi culturali e la scolarità, l’accesso alle opportunit­à e altro, possiamo tuttavia collocare socialment­e gli startupper proprio nelle posizioni intermedie. Se così fosse, in prima analisi, il popolo delle start up sarebbe coinvolto e interessat­o dalla di- namica delle classi sociali di riferiment­o e con esse starebbe appunto arretrando». Questa dinamica si intreccia con quella delle grandi aziende dove la mobilità sociale è un lontano ricordo. «Anche le grandi aziende — continua Noceti — non funzionano più come in passato: il migliorame­nto organizzat­ivo ha prodotto aziende più piatte, con meno livelli intermedi». Carriera, addio.

La lente economica

Alla fine pesa anche la ridotta dimensione del fenomeno, non capace di incidere né sull’immaginari­o né sulla realtà. «Circa 250 milioni di investimen­to in start up nel nostro Paese — calcolano Noceti e De Palma — danno una dimensione all’ascensore italiano per una portata di 3 persone; una semplice proporzion­e con gli investimen­ti in Germania, Francia, Gran Bretagna mostra ascensori in risalita con rispettiva­mente 60, 33 e 27 persone». Per Noceti però i numeri andrebbero corretti: se le start up rilevate dalle Camere di Commercio sono 7.480 Simbiosity rileva un fenomeno complessiv­o di un ordine di grandezza superiore: più di 15.990 «entità innovative», a tutti gli effetti start up, ma non solo e non principalm­ente finanziari­e. Start up industrial­i, appunto. La rilevazion­e sembra essere l’aspetto quantitati­vo di quanto individuat­o in termini qualitativ­i da De Rita: non c’è un «mito» sociale start up in Italia.

La speranza di essere Mark Zuckerberg, da noi, non esiste.

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Fonte: Istat, Simbiosity Corriere della Sera
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Sul «Corriere» L’intervista al ministro Carlo Calenda il 20 settembre

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