Il Paese dell’iris nero Valli abbandonate e il gioiello di Petra: il vento della storia soffia in Giordania
Monumenti dalla bellezza intatta immersi nella regione più turbolenta del mondo: ventitremila siti archeologici sono ancora da scavare. Sapete dove sono stati girati «The Martian» e «Indiana Jones e l’ultima crociata»? Proprio qui: ecco perché
egui il dromedario: ti porterà sempre alla tenda o all’acqua». «Il deserto è familiare come la tua mano: ha dei solchi da conoscere». «Il vento non arriva mai come lo vuole la carovana: allora siediti e fallo passare»... Sotto un cielo rosa, nell’accampamento in mezzo al nulla di Wadi Rum, il saggio Ziad fa colazione con latte, datteri e proverbi. Si deve tornare ad Amman ed è un’alba nostalgica. Sdraiato nella dewaniya, i divani dell’accoglienza, torna ragazzo con le frasi del nonno, all’adolescenza nomade e beduina lasciata per fare la guida dei turisti. A come scoprì la comodità d’una casa, la morbidezza d’un letto. A come gli capitò d’accompagnare tante volte i pellegrini e i viaggiatori illustri («ero amico del vostro presidente Ciampi...»). E a come ha capito, a 68 anni e Dio solo sa quanti nipoti, che il nonno aveva ragione: «Il deserto t’insegna che hai bisogno di poco. Una tenda, una tazza di tè. Un giorno verrò a stare di nuovo qui, questa sabbia dà le risposte che servono».
Blowin’ in the wind. I cammellieri lo sanno da prima di Bob Dylan, che la risposta è nel vento e nelle dune. Ma tutti i giordani rammentano che la domanda è sempre l’acqua. Il canto delle pietre stratificate, certo, dalle migliaia di dolmen preistorici al pinnacolo che simbolizza la salificata moglie di Lot. Ma pure il pianto delle fonti disseccate, ovunque: Amman che una volta era detta «la sorgente della gazzella», Madaba che si chiamava «l’acqua che scorre», i nomadi che masticano la quarzite d’arenaria per far passare la sete, i nabatei che fessuravano le lastre in diagonale per non perdere neanche una goccia di pioggia, i loro canali che ancora oggi sono imitati nelle più aride regioni africane. Tutto questo è solo una memoria: la Giordania ha penurie d’acqua da record mondiale. Vai sul Giordano con le immagini in bianco e nero che ci girava Pier Paolo Pasolini per sceneggiare la sua Terrasanta, ragazzini che sguazzavano e zattere in navigazione, ma ci trovi un ruscello quasi prosciugato — l’alveo è un tredicesimo, rispetto a cinquant’anni fa — e la metà delle coltivazioni di timo e zucchine ormai perduta. Arrivi al castello crociato di Ash Shawbak, una valle abbandonata verso Petra, e il custode ti racconta che «quand’ero bambino questo era un paradiso terrestre, poi è finita l’acqua e non è più venuto nessuno».
Ci vengono i turisti. Aggrappati a queste bellezze come i fichi nelle gole di Petra. Ostinati a sbucare ovunque come l’artemisia e il ricino, i capperi e il pepe, i sicomori e gli eucalipti che prendono l’acqua chissaddove. Fra i mosaici delle chiese d’Umm ar-Rasas, eremo medievale che solo i più appassionati vanno a scovare, 56
Segui sempre il dromedario: ti porterà sempre alla tenda o all’acqua
chiese costruite quando qui comandavano i sunniti di Bagdad. I monumenti giordani rimangono una miracolosa certezza di bellezza, immersi nella regione più turbolenta del mondo. Ventitremila siti archeologici ancora da scavare: intorno al colonnato ovale di Gerasa, gemma della Decapoli greco-romana che l’Unesco (ma perché?) non ha mai messo sotto tutela, l’85 per cento della città è sottoterra. Qui, dove un tempo fiorivano i ciliegi (vi siete mai chiesti l’etimologia delle cerase siciliane?) e Gesù liberò dai demoni il geraseno. Bibbia, quanta ne volete: il Monte Nebo e la sorgente di Mosè, la Betania del Battesimo di Cristo e la tomba di Aronne sulle montagne di Petra. Suggestioni, pure: l’antica Via dell’incenso che attraversava il deserto (da non perdere la Piccola Petra, meno affollata e più silenziosa di quella che il mondo scende a visitare: una stretta gola da attraversare a piedi, vietata a cavalli e cammelli, i ricchi mercanti ci costruirono un caravanserraglio con lavabi e stanze affrescate, più confortevole dei moderni autogrill); la Strada dei Re che taglia paesaggi Paramount — mica per nulla sono venuti in Giordania a girare decine di film, dalla sequenza finale d’Indiana Jones e l’ultima
Crociata a The Martian — ed era percorsa all’ingiù da chi andava alla Mecca, all’insù invece da chi puntava su Gerusalemme. E poi il mosaico di Madaba, che fu la prima grande cartina geografica del Medio Oriente e fa la caricatura dei pesci in fuga dalle acque letali del Mar Morto, le mura solitarie di Karak dove nacque San Paolo, l’Aqaba di Lawrence d’Arabia popolata di fauna da rift del Mar Rosso, l’Oasi azzurra ripopolata dall’antichissimo e redivivo sarhanico, capace di nuotare nel mare come nei laghi...
Naturalmente, Petra. Che mantiene biglietti d’ingresso costosi, nonostante la siccità di visitatori e le paure di chi viaggia in Medio oriente, «perché la politica è comunque d’evitare che si trasformi un una baracconata stile Piramidi di Giza». Saggia cautela: per anni gli archeologi si sono scervellati su una scritta in greco che poi, s’è scoperto, era solo l’anagramma d’un turista di Salonicco. Anche i cavalli e i carretti sono stati calmierati: più della metà dei soldi, i cocchieri devono versarla al governo e all’Unesco, con un po’ di malcontento delle guide e però il sollievo di chi non si sente assalito come al Cairo. La capitale nabatea è l’orgoglio giordano. Un popolo che per primo legava le parole fra loro, scrivendole. Che sapeva sopravvivere cinque anni senza una pioggia, celebrava le alluvioni come manne, deviava i venti con argini e dighe. Che inventò il primo fard per le sue donne, la terra rossa grattata sui monti. Che sfuggiva il pino, l’albero egoista che non fa crescere nulla intorno,
e benediva la generosa palma che dà ombra e latte e zuccheri. Che mischiava stili architettonici, dal greco al cinese, per far sentire ogni viaggiatore a casa sua. «La Giordania è una memoria ereditata», dice Ziad. Quando ce ne andiamo dal profondo Sud, c’è tempo per fermarsi a guardare dove spunta l’iris nero, il simbolo nazionale. Un timido che fiorisce in primavera. Non bisogna coglierlo, dicono i giordani, per lasciarne la memoria l’anno prossimo: «Il suo ricordo è una campana che suona nel vento della dimenticanza».
L’acqua Amman una volta era detta «la sorgente della gazzella»
Il biglietto Petra mantiene biglietti d’ingresso costosi per selezionare il turismo